Eto’o e il ruggito solitario.
Un Mondiale fallimentare, il Continente in ginocchio. Per salvare la faccia al ‘Continente Nero’ è occorsa l’insperata qualificazione ghanese- premiata contemporaneamente dall’atteggiamento corsaro dei Socceroos sui serbi e dall’indolore scacco contro la puntuale Germania – nonostante una malcelata insipienza tattica.
A meritare un posto in questa insolita graduatoria, non una gemma tattica, una delizia per esteti, un gesto istintivo ma la veemente reazione dell’umanissimo Eto’o, abile velocista e per l’occasione capitano, simbolo, cuore nevralgico della manovra camerunense. La rete che scatena l’ardente sfogo del Re Leone, 19 giugno in Camerun – Danimarca, scrolla per un momento dal vigoroso dorso del campione la pressione africana. Le aspettative di chi elemosina un risultato positivo da contrapporre all’egoismo quotidiano d’un’esistenza per nulla appagante. L’Eto’o uomo, esempio di sobrietà ed abnegazione, tralascia inopportuni teatrini o smargiassate in sala stampa, ma risponde ai richiami di quelle terre cariche di sogni come meglio (e spontaneamente) gli riesce: dannandosi l’anima sull’habitat che più gli è congeniale e dove più è temuto. L’Eto’o calciatore, raccoglie ottimizzandole le disposizioni della controparte, semplicemente conquistando quasi ogni torneo gli si dia possibilità. In Sud Africa nulla ha potuto contro la sprovvedutezza di molti compagni di team, tornando a casa con tre rovesci su eguali incontri. Un tracollo verticale, che difficilmente riuscirà ad estirpare dai più reconditi angoli della memoria (‘la più grande delusione della mia vità’). Io però, la sentita istantanea di tripudio temporaneo, mi sento di salvarla dall’oblio.
I Tulipani dal gioco totale all’occhiutezza fruttuosa.
Genti d’Olanda, figli di Re Guglielmo e Van Gogh, scordate al più presto l’immacolata grazia del Cigno d’Utrecht, e le opere d’arte scaturite dai piedi del Profeta Crujiff e imparate ad amare la selezione offertavi da Van Marwijk. Capitela. Estrapolatene il nocciolo dall’apparenza. La sfolgorante chimera del ‘Gioco totale’ lasciatela ai romantici d’antan. Nel Campionato del Mondo delle sorprese e delle prime importanti defezioni, la possibilità di un trionfo tinto d’arancio si palesa inequivocabilmente. Concretezza, solidità, cinismo le nuove parole chiave con cui far breccia nelle retroguardie avversarie. Godetevi gli apostoli che sono incaricati, metaforicamente, di cingervi la mano fino alla battuta conclusiva. Van Persie, Kuyt, Snejider e Robben i loro nomi, da non scordare per chi, dopo la fascinazione seventies della giostra oranges, ha ancora voglia di farsi piacevolmente indottrinare dagli epigoni di Rinus Michaels.
Domenech e il deserto.
L’ometto, aggrappato con le unghie e con il poco intento di pugnare rimastogli al proprio micromondo interno, nel tentativo di lasciar trasparire una scorza serafica e indifferente, diciamolo, oltre allo sberleffo facilone si offre anche all’umana compassione. Proviamo ad entrare negli sgualciti panni dell’esecrabile Raymond, immortalato al centro del campo, tra l’inquieto e il sostenuto. Sei la guida tecnica dei più indisponenti omaccioni, partiti già con l’aria di chi la ‘voglia di sbattersi’ l’ha colpevolmente lasciata all’aeroporto De Gaulle. I sopracitati durante la World Cup si distinguono per prestazioni al limite della decenza, inscenano guerriglie interne, corrono poco e mugolano troppo. Nella natìa Francia i quotidiani, commentano la Waterloo pallonara appellandovi come les imposteurs. I dubbi nutriti sulla validità di convocazioni e uomini schierati s’affastellano copiosi e l’infausta sorte che ti punisce da quel triste 9 luglio 2006 pare non volerti abbandonare.
Certo, i motivi per i quali giocatori, stampa e opinione pubblica gli hanno ormai da tempo voltato le spalle s’intuiscono tutti, sintetizzati nello spiacevole siparietto con Parreira.
Pur di non esibirsi in un pacifico quanto ordinario gesto con il quale avrebbe concluso la scaramuccia riguardo alle dichiarazioni del coach carioca - ad interim sulla panchina dei Bafana- l’entraineur si produce in una goffa piroetta, per mezzo della quale svicola e si esime dal confronto diretto.
Grazie anche al risultato tragico del match (si converrà che uscir sconfitti anche da un umilissimo Sud Africa- la squadra- sia una gaffe agonistica imperdonabile) il clima al ritorno in patria sarà ancor più arroventato. Se Domenech se l’aspettasse, non ci è dato saperlo, ma il motivo per cui il suo fare eremitico è da me considerato top, piuttosto che flop five risiede nell’assoluta volontà di rimanere isolato – tralasciando alcuna patetica attenuante.
A differenza di ‘Gastone’ Lippi (non è dopotutto un tiro dagli undici metri in più ad aver decretato l’eterna gloria di uno e l’abisso metaforico dell’altro?) e di altri sconfitti di lusso, ha invece tracciato una linea netta tra coloro i quali stanno ‘con lui’ e chi invece è ‘contro di lui’, evitando di appellarsi ad un ipocrita ‘sconfitta del gruppo’.
Ha affrontato la debacle in primissima persona, scusate se è poco.
Vederlo circondato solo dal muro di suono composto dalle vuvuzelas e dal tramestio del -fino ad allora – sparuto pubblico accorso alla gara, consiste nel momento ‘cinematograficamente’ e simbolicamente più ‘alto’ offertoci finora.
La palombella rossa della Furia Villa.
Il match con i mediocri caraibici mai è stato caratterizzato dall’equilibrio o da una sinistra incertezza. Gli uomini di Del Bosque, assurto il ruolo di grandi favoriti del torneo, conferito loro dai bookies d’Albione- si sono dilettati nello sballottare i malcapitati undici carneadi (nove, se avete l’accortezza garbata di non considerare tali due velocisti prestati al calcio come il ‘barese’ Alvarez e David Suazo) per l’intera superficie adibita al gioco. La sgambata iberica poco ha da offrire sul piano dialettico.
Al contrario la prodezza del Guaje, che ristabilisce una parvenza di giustizia alla graduatoria del Gruppo G, è un gingillo di inestimabile levatura, destinato ad inserirsi tra pasosdobles carioca e roulette à la ‘Zizou’ in quella galleria comprendente indimenticabili affreschi di talento ed emozione che Mondiale dopo Mondiale và arricchendosi.
Quel diavolo d’un Villa aduso alla segnatura lo è fin dagli albori della precoce carriera, tanto da meritare un soprannome d’adolescente che ancora gli rimane appiccicato. C’è invero da azzardare che gol di tal fatta siano anche per lui deroghe estorte alla routine.
La sgusciante serpentina tra i due honduregni è un omaggio al dinamismo, il controllo a rientrare-verso il centro area- con terzo avversario evitato un amalgama di padronanza fisica e arguzia; la conclusione in caduta, carezzando la sfera, assomiglia molto ad un astro morente che, dopo aver sfavillato nell’aere, s’affievolisce dolcemente.
L’estremo difensore, dopo aver tentato senza fortuna un balzo estemporaneo, non può che osservare la rete gonfiarsi , incolpevole e prigioniero della solitudine impostagli dal ruolo.
Diego il trasformista.
Che sia un eletto, elevato a icona pedatoria universale dalla critica all’unisono, lo si estrapola facilmente dai filmati che lo ritraggono in quel di Città del Messico, annus domini 1986. L’esistenza e la carriera di un uomo sintetizzate, avviluppate nell’arco di tre giri d’orologio: dapprima l’istinto peccaminoso, poi la redenzione, tutta in quella epica cavalcata a rete, facendosi doppiamente beffa di una nazione intera. La nazione di Sua Maestà, perseguente il decoro e l’irreprensibilità di maniera, messa in ginocchio – o è il caso di dirlo, dribblata e scherzata- da quel folletto latino sprizzante anticonformismo smargiasso, mancanza di misura e (soprattutto) estremo desiderio d’imporsi. La riconosciuta grandezza di Maradona, in nuce, sta proprio nell’oltrepassare i limiti impostigli dalla natura, aggiungendoci l’aulenza della guasconata. Diego è il politico fanfarone nei confronti del quale censureresti il tuo io giustizialista. L’agitatore di masse un po’ populista ma che alla fine della fiera non puoi astenerti dal dimostrargli spontaneo affetto. Appesi i celestiali calzari al chiodo, ha vestito la tuta da selezionatore nel tentativo di riscrivere la storia, accompagnando l’Argentina all’ hattrick Mondiale. Dal Maradona pibe de oro & Mano de dios all’allenatore linguacciuto e sanguigno il passo non è così lungo come si possa presumere. Il calco è rimasto inequivocabilmente quello.
D’altronde le peculiarità, come i tratti psicologici, mica si smarriscono col fluire del tempo.
Nemmeno se scegli di catalizzare speranze e fantasticherie d’un intero popolo, sulla tua pingue e focosa persona. Men che meno se ti costringono ad uniformarti all’establishment imperante, al ‘calcio dei padroni’; se chi hai sempre combattuto con dichiarazioni al vetriolo e colpi di tacco si prefigge d’usare il tuo nome per tornaconto personale e pensa di farlo addomesticandoti sotto il velluto di una camiciola con giacca e cravatta.
Il fenomeno ammirato (e scimmiottato) sui rettangoli verdi di mezzo mondo è tutto nel coach che prende a male parole la stampa utilizzando registro basso ed espressioni vernacolari.
Diego Armando Maradona, il rivoluzionario,indomabile Diego, china il capo soltanto di fronte ai voleri delle adorate Djalma e Giannina, transitando dalla tuta casual ad una livrea improbabile ad un palpito dall’inizio match.
Che la parte del dandy wildiano non gli sia congeniale, lo suggerisce l’evidenza. Che questo cambio di vesti verrà riproposto in loop assumendo i tratti di un mantra benaugurale, saprà svelarcelo soltanto la storia.
Per ora la liturgia - oltre ai bizzarri metodi d’allenamento, favorevoli nel ‘fare gruppo’ e le spigliate trame offensive albicelestes – pare pagare.
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