venerdì 24 settembre 2010

Tanti Auguri, Fatto Quotidiano!


Esattamente un anno fa, iniziava la (per ora) fiera storia di questo quotidiano così umile e sobrio per dimensione e spessore (formato Compact, lunghezza media pagine sedici) ma d’una quasi sfrontata schiettezza, come non solo gli aficionados impareranno nel corso del tempo, circa i contenuti.
Il debutto, per quanto il direttore Padellaro e le firme di punta formulassero con criterio forme di excusatio non petita per eventuali refusi o leggerezze dovute all’inesperienza, fu sfavillante. Le copie, ancora a tiratura limitata, vennero bruciate nel giro di una mattinata e l’edicole prese d’assalto.
Fuoco di paglia o l’inizio di un simbiotico rapporto tra emissari e recettori?

Nell’Italia malata terminale- dalla condizione ‘grave ma non seria’, più dittatura silente(‘dolce’) che ‘repubblica delle Banane’, impossibilitata ad uscire dalla crisi (economica, morale, sociale)nella quale è da almeno tre lustri invischiata per mancanza di strumenti e volontà - quel puzzo precipuo di quando le libertà e i dettami costituzionali vengono smaccatamente calpestati, è divenuto insostenibile.

Ed è proprio contro l’informazione dominante- preconfezionata e spurgata dagli eccessi oltreché dalle verità impunemente occultate- e la tendenza divenuta tristemente d’uso comune, di far ‘l’orecchie da mercante’, non rendendosi disponibile verso chi è in posizione privilegiata e la verità cerca ostinatamente di far venire a galla, che progetti come quello de Il Fatto Quotidiano divengono imprescindibili.

Ricordo ancora bene, quello storico(almeno per me) 23 settembre (chi non lo intende tale se ne accorgerà presto, col progressivo inabissamento italiano), nel quale i giornalai veneziani, spaesati e in odor di oltraggio, esponevano all’unisono tutto il risentimento formato cartello, attraverso il quale ‘ringraziavano’ Travaglio, ‘per aver fatto arrivare solo un paio di copie del Suo giornale’.
Non mi unii al malcontento generale, ma rimasi comunque a bocca asciutta, sconfitto dopo un lungo tour alla ricerca dell’ambito ‘Quotidiano’e al contempo potei ritenermi soddisfatto nell’aver tastato il polso d’una porzione, seppur ancora marginale, della collettività.
Il sentirsi partecipi, rappresentati a pieno, anche se da un organo informativo invece che da un partito politico, è senza dubbio una sensazione rinvigorente nonché, lo dico senza imbarazzo né piaggeria, emozionante.

Il direttore Padellaro, Travaglio, Barbacetto, Lillo, Gomez, Flores D’Arcais, Telese e più giovani collaboratori- incrociando idee, convinzioni, progetti anche con la redazione di Micromega, blog come quelli presieduti da Beppe Grillo o Piero Ricca, movimenti quali Il Popolo Viola o Le Agende Rosse - hanno creato un fronte comune nel quale anche il più privato dei cittadino potesse sentirsi partecipe di una genuina (e sorprendente nella propria intransigenza) alternativa ma, quel che più conta, informato.

Debitore, per denominazione, emblema (lo ‘strillone’ stilizzato accanto al titolo) e linea editoriale ai prodotti dei maggiori tra i capiscuola della tradizione giornalistica nazionale, si pensi rispettivamente al ‘Fatto’ di Enzo Biagi o a ‘La Voce’ di Indro Montanelli, il ‘Fatto Quotidiano’ ha fatto tesoro degli insegnamenti delle prestigiose penne, condividendo quell’amore per l’informazione nella sua forma più oggettiva, per la Costituzione e il conseguente rispetto dei precetti in essa contenuti, per il rispetto senza condizione dei diritti legati all’individuo inserito nella società, per un’acuta e, solo secondo chi ha qualcosa (o troppo) da nascondere o guadagnare, pedante analisi politica scevra da alcun colore politico. Chi confonde (in malafede o moderatismo di convenienza) l’atteggiamento intransigente e il desiderio di integrità facilmente rintracciabile tra gli articoli con pretese eccessivamente giustizialiste, forcaiole o moralistiche ha certamente a cuore una linea lassista nella valutazione (da parte di organi atti a questioni giudiziarie, ma non solo: anche l’opinione pubblica è in ballo) delle azioni illegali e bieche compiute da coloro i quali ci rappresentano in blasonate sedi e che invece dovrebbero fungere da esempio cristallino.
Grazie al Fatto(con la ‘effe’ maiuscola) abbiamo goduto, si fa per dire, d’ondate chiarificatrici di ‘fatti’ (con la ‘effe’ minuscola, ma che, molti dei quali per rilevanza, meriterebbero la maiuscola), elargiti a noi lettori senza l’oculatezza di chi deve difendere gli interessi di qualcun altro (sia il potente di turno o i lettori-elettori), privi quindi di un ‘taglio’ specifico e parziale.
L’esclusivo interesse è stato, dal primo introvabile (ahia!) numero ad oggi, quello del cittadino-lettore, messo vis-à-vis con quello che la scena politica e non (ma come si è soliti dire: ‘tutto è politica’) ci presenta (il che è molto diverso da come Si vorrebbe presentare), nella sua concretezza, crudezza e prosaicità.
A chi non è d’accordo, con mente all’icona Bogart de l’ultima minaccia, e con il cuore a questo esempio di libertà fatto giornale, basterà un: ‘è la stampa bellezza. E tu non ci puoi fare niente’.
Buon Compleanno.

domenica 27 giugno 2010

Il meglio della Coppa in 5 istantanee

Eto’o e il ruggito solitario.
Un Mondiale fallimentare, il Continente in ginocchio. Per salvare la faccia al ‘Continente Nero’ è occorsa l’insperata qualificazione ghanese- premiata contemporaneamente dall’atteggiamento corsaro dei Socceroos sui serbi e dall’indolore scacco contro la puntuale Germania – nonostante una malcelata insipienza tattica.
A meritare un posto in questa insolita graduatoria, non una gemma tattica, una delizia per esteti, un gesto istintivo ma la veemente reazione dell’umanissimo Eto’o, abile velocista e per l’occasione capitano, simbolo, cuore nevralgico della manovra camerunense. La rete che scatena l’ardente sfogo del Re Leone, 19 giugno in Camerun – Danimarca, scrolla per un momento dal vigoroso dorso del campione la pressione africana. Le aspettative di chi elemosina un risultato positivo da contrapporre all’egoismo quotidiano d’un’esistenza per nulla appagante. L’Eto’o uomo, esempio di sobrietà ed abnegazione, tralascia inopportuni teatrini o smargiassate in sala stampa, ma risponde ai richiami di quelle terre cariche di sogni come meglio (e spontaneamente) gli riesce: dannandosi l’anima sull’habitat che più gli è congeniale e dove più è temuto. L’Eto’o calciatore, raccoglie ottimizzandole le disposizioni della controparte, semplicemente conquistando quasi ogni torneo gli si dia possibilità. In Sud Africa nulla ha potuto contro la sprovvedutezza di molti compagni di team, tornando a casa con tre rovesci su eguali incontri. Un tracollo verticale, che difficilmente riuscirà ad estirpare dai più reconditi angoli della memoria (‘la più grande delusione della mia vità’). Io però, la sentita istantanea di tripudio temporaneo, mi sento di salvarla dall’oblio.

I Tulipani dal gioco totale all’occhiutezza fruttuosa.
Genti d’Olanda, figli di Re Guglielmo e Van Gogh, scordate al più presto l’immacolata grazia del Cigno d’Utrecht, e le opere d’arte scaturite dai piedi del Profeta Crujiff e imparate ad amare la selezione offertavi da Van Marwijk. Capitela. Estrapolatene il nocciolo dall’apparenza. La sfolgorante chimera del ‘Gioco totale’ lasciatela ai romantici d’antan. Nel Campionato del Mondo delle sorprese e delle prime importanti defezioni, la possibilità di un trionfo tinto d’arancio si palesa inequivocabilmente. Concretezza, solidità, cinismo le nuove parole chiave con cui far breccia nelle retroguardie avversarie. Godetevi gli apostoli che sono incaricati, metaforicamente, di cingervi la mano fino alla battuta conclusiva. Van Persie, Kuyt, Snejider e Robben i loro nomi, da non scordare per chi, dopo la fascinazione seventies della giostra oranges, ha ancora voglia di farsi piacevolmente indottrinare dagli epigoni di Rinus Michaels.


Domenech e il deserto.
L’ometto, aggrappato con le unghie e con il poco intento di pugnare rimastogli al proprio micromondo interno, nel tentativo di lasciar trasparire una scorza serafica e indifferente, diciamolo, oltre allo sberleffo facilone si offre anche all’umana compassione. Proviamo ad entrare negli sgualciti panni dell’esecrabile Raymond, immortalato al centro del campo, tra l’inquieto e il sostenuto. Sei la guida tecnica dei più indisponenti omaccioni, partiti già con l’aria di chi la ‘voglia di sbattersi’ l’ha colpevolmente lasciata all’aeroporto De Gaulle. I sopracitati durante la World Cup si distinguono per prestazioni al limite della decenza, inscenano guerriglie interne, corrono poco e mugolano troppo. Nella natìa Francia i quotidiani, commentano la Waterloo pallonara appellandovi come les imposteurs. I dubbi nutriti sulla validità di convocazioni e uomini schierati s’affastellano copiosi e l’infausta sorte che ti punisce da quel triste 9 luglio 2006 pare non volerti abbandonare.

Certo, i motivi per i quali giocatori, stampa e opinione pubblica gli hanno ormai da tempo voltato le spalle s’intuiscono tutti, sintetizzati nello spiacevole siparietto con Parreira.
Pur di non esibirsi in un pacifico quanto ordinario gesto con il quale avrebbe concluso la scaramuccia riguardo alle dichiarazioni del coach carioca - ad interim sulla panchina dei Bafana- l’entraineur si produce in una goffa piroetta, per mezzo della quale svicola e si esime dal confronto diretto.
Grazie anche al risultato tragico del match (si converrà che uscir sconfitti anche da un umilissimo Sud Africa- la squadra- sia una gaffe agonistica imperdonabile) il clima al ritorno in patria sarà ancor più arroventato. Se Domenech se l’aspettasse, non ci è dato saperlo, ma il motivo per cui il suo fare eremitico è da me considerato top, piuttosto che flop five risiede nell’assoluta volontà di rimanere isolato – tralasciando alcuna patetica attenuante.
A differenza di ‘Gastone’ Lippi (non è dopotutto un tiro dagli undici metri in più ad aver decretato l’eterna gloria di uno e l’abisso metaforico dell’altro?) e di altri sconfitti di lusso, ha invece tracciato una linea netta tra coloro i quali stanno ‘con lui’ e chi invece è ‘contro di lui’, evitando di appellarsi ad un ipocrita ‘sconfitta del gruppo’.
Ha affrontato la debacle in primissima persona, scusate se è poco.
Vederlo circondato solo dal muro di suono composto dalle vuvuzelas e dal tramestio del -fino ad allora – sparuto pubblico accorso alla gara, consiste nel momento ‘cinematograficamente’ e simbolicamente più ‘alto’ offertoci finora.

La palombella rossa della Furia Villa.
Il match con i mediocri caraibici mai è stato caratterizzato dall’equilibrio o da una sinistra incertezza. Gli uomini di Del Bosque, assurto il ruolo di grandi favoriti del torneo, conferito loro dai bookies d’Albione- si sono dilettati nello sballottare i malcapitati undici carneadi (nove, se avete l’accortezza garbata di non considerare tali due velocisti prestati al calcio come il ‘barese’ Alvarez e David Suazo) per l’intera superficie adibita al gioco. La sgambata iberica poco ha da offrire sul piano dialettico.
Al contrario la prodezza del Guaje, che ristabilisce una parvenza di giustizia alla graduatoria del Gruppo G, è un gingillo di inestimabile levatura, destinato ad inserirsi tra pasosdobles carioca e roulette à la ‘Zizou’ in quella galleria comprendente indimenticabili affreschi di talento ed emozione che Mondiale dopo Mondiale và arricchendosi.
Quel diavolo d’un Villa aduso alla segnatura lo è fin dagli albori della precoce carriera, tanto da meritare un soprannome d’adolescente che ancora gli rimane appiccicato. C’è invero da azzardare che gol di tal fatta siano anche per lui deroghe estorte alla routine.
La sgusciante serpentina tra i due honduregni è un omaggio al dinamismo, il controllo a rientrare-verso il centro area- con terzo avversario evitato un amalgama di padronanza fisica e arguzia; la conclusione in caduta, carezzando la sfera, assomiglia molto ad un astro morente che, dopo aver sfavillato nell’aere, s’affievolisce dolcemente.
L’estremo difensore, dopo aver tentato senza fortuna un balzo estemporaneo, non può che osservare la rete gonfiarsi , incolpevole e prigioniero della solitudine impostagli dal ruolo.


Diego il trasformista.
Che sia un eletto, elevato a icona pedatoria universale dalla critica all’unisono, lo si estrapola facilmente dai filmati che lo ritraggono in quel di Città del Messico, annus domini 1986. L’esistenza e la carriera di un uomo sintetizzate, avviluppate nell’arco di tre giri d’orologio: dapprima l’istinto peccaminoso, poi la redenzione, tutta in quella epica cavalcata a rete, facendosi doppiamente beffa di una nazione intera. La nazione di Sua Maestà, perseguente il decoro e l’irreprensibilità di maniera, messa in ginocchio – o è il caso di dirlo, dribblata e scherzata- da quel folletto latino sprizzante anticonformismo smargiasso, mancanza di misura e (soprattutto) estremo desiderio d’imporsi. La riconosciuta grandezza di Maradona, in nuce, sta proprio nell’oltrepassare i limiti impostigli dalla natura, aggiungendoci l’aulenza della guasconata. Diego è il politico fanfarone nei confronti del quale censureresti il tuo io giustizialista. L’agitatore di masse un po’ populista ma che alla fine della fiera non puoi astenerti dal dimostrargli spontaneo affetto. Appesi i celestiali calzari al chiodo, ha vestito la tuta da selezionatore nel tentativo di riscrivere la storia, accompagnando l’Argentina all’ hattrick Mondiale. Dal Maradona pibe de oro & Mano de dios all’allenatore linguacciuto e sanguigno il passo non è così lungo come si possa presumere. Il calco è rimasto inequivocabilmente quello.
D’altronde le peculiarità, come i tratti psicologici, mica si smarriscono col fluire del tempo.
Nemmeno se scegli di catalizzare speranze e fantasticherie d’un intero popolo, sulla tua pingue e focosa persona. Men che meno se ti costringono ad uniformarti all’establishment imperante, al ‘calcio dei padroni’; se chi hai sempre combattuto con dichiarazioni al vetriolo e colpi di tacco si prefigge d’usare il tuo nome per tornaconto personale e pensa di farlo addomesticandoti sotto il velluto di una camiciola con giacca e cravatta.
Il fenomeno ammirato (e scimmiottato) sui rettangoli verdi di mezzo mondo è tutto nel coach che prende a male parole la stampa utilizzando registro basso ed espressioni vernacolari.
Diego Armando Maradona, il rivoluzionario,indomabile Diego, china il capo soltanto di fronte ai voleri delle adorate Djalma e Giannina, transitando dalla tuta casual ad una livrea improbabile ad un palpito dall’inizio match.
Che la parte del dandy wildiano non gli sia congeniale, lo suggerisce l’evidenza. Che questo cambio di vesti verrà riproposto in loop assumendo i tratti di un mantra benaugurale, saprà svelarcelo soltanto la storia.
Per ora la liturgia - oltre ai bizzarri metodi d’allenamento, favorevoli nel ‘fare gruppo’ e le spigliate trame offensive albicelestes – pare pagare.

lunedì 21 giugno 2010

L'Africa nel Pallone: Analisi d'un fallimento




Forse c’eravamo sbagliati. Da bravi espansionisti, si pensava bastasse insinuare nella psiche dei selvaggi lo spirito tatticista, perché questi- dopo aver metabolizzato a dovere la dottrina- potessero superare senza eccessivi patemi né scrupoli i maestri d'Occidente.
Dopo ormai un ventennio di curiosa gestazione, i massimi dissipatori di prestanza fisica e atletica, hanno mancato la zampata decisiva anche tra le mura amiche.
Un tempo, agli albori del calcio africano, prima dei vari Milla, N’Kono, Eto’o e Drogba, l’Africa del Pallone si presentò al Mundial messicano (rappresentata dal solo Marocco) con auspici sfavorevoli e credenziali ridotte al lumicino.
Il risultato fu magro: i marocchini vennero estromessi dalla competizione ancor prima di poterci provare, rispediti in quei di Casablanca per mano (o piedi) tedesca e peruviana.
Quattro anni dopo, una rabberciata selezione zairese rimandava la prova del nove, incassandone invece quattordici, a contrasto del numero ‘0’, sotto la colonnina alla voce ‘reti realizzate’. Non sembrava certo possibile anche solo concepire quelle compagini fantozziane come un’insidia al dualismo Sud America (leggasi Brasile)- Europa.
Poi, le prime avvisaglie di una plausibile inversione di tendenza.
E’ il 1982 e nella tia Espana l’Algeria allarma l’oligarchia calcistica all’occidentale imponendo una doccia gelata quantomeno inaspettata al Wunderteam teutonico, trascinata dai guizzi di Madjer.
Gli arabi si imporranno anche sul modesto Cile - in una disputa come a volte riescono ad offrire solo le compagini poco aduse al difensivismo e dispensatrici di grossi regali agli avversari - ma non riusciranno a centrare l’impresa della qualificazione, complice lo Schande von Gijon (Patto di non-belligeranza di Gijon) tra tedeschi ed austriaci, rei di un Anschluss fuori tempo. Si trattò di una delle più lugubri pagine in tutta la storia dello sport, un concerto d’esecrabile antisportività. Gli alpini, grazie ad una differenza reti favorevole, si ‘accontentarono’ di regalare la vittoria ai cugini, estromettendo di fatto Madjer e compagni.
Contemporaneamente nel Gruppo 1 il Camerun impatterà tre incontri e concludendo il gironcino con gli stessi punti degli azzurri di Bearzot. L’Italia approderà al secondo turno grazie al maggior computo di reti segnate, e proseguirà il Mondiale come tutti ben sanno. Ma questa è un’altra storia.
Nell’86 messicano altra piccola affermazione con il passaggio del turno marocchino. Nulla più che un fuoco di paglia.

‘Le notti magiche’ italiane regalano in mondovisione un sogno dai sapori sub-sahariani: Il Camerun di Roger Milla, splendido trentottenne-immarcescibile a tal punto di partecipare anche alla successiva Coppa del Mondo- arrivò fino alle soglie della semifinale, superato nei quarti solo da una tenace Inghilterra.
La spensieratezza, la fisicità e la generosità-amalgamate invero con un’eccessiva dose d’imperizia tattica- della ‘squadra simpatia’, marcarono l’archetipo della compagine africana ‘tipo’, caratterizzazione che ancor oggi è, a ben vedere, ritenuta valida.
Da quel momento in poi, destituiti a forza dalla Torre d’Avorio di calcistica supremazia e inattaccabilità, abbiamo atteso l’incombere del fatale momento, nel quale quegli adoni d’ebano avrebbero avuto la meglio su gringos frombolieri o rocciosi alfieri mittel-europei.
Invece, come sempre riescono a fare, gli africani ci hanno nuovamente stupito. Questa volta, ahiloro, in negativo.
Lo storico risultato della selezione camerunense- che pareva essere il primo di molti- rimase invece per molto isolato e si ammantò di leggendaria eccezionalità, fino all’exploit inatteso del Senegal a ‘Korea & Japan 2002’, capace di inscriversi tra le migliori otto nella manifestazione probabilmente più rocambolesca di sempre. Nel mezzo e a seguire, il nulla.

A dire il vero, un po’ sento di dare la colpa a noi.
A noi geometrici e noiosissimi occidentali, che misconosciamo il rischio sul manto erboso e prediligiamo un’arcana attività regolamentata da lavagnette, pressing alto, dottrine al videoproiettore.
Noi esegeti del ‘prima non prenderle, poi (forse) darle’, fautori in primis del controgioco che dell’attacco verticale dello spazio.
Noi convinti di convertirli al tatticismo, imbrigliando la predisposizione al gesto irruento.
Artur Jorge, Schafer, Bruno Metsu e altri hanno aperto la strada all’opera ordinatrice dei ben quattro commissari tecnici sulle panchine delle nazionali africane in Sud Africa, vagheggianti una seducente aggregazione tra l’erudizione strategica, imposta ai calciatori africani dall’alto, e lo straripante atletismo. Secondo quanto visto fino ad ora, la sagace pianificazione ha portato più bastonate che frutti.
Doveva essere la Coppa del Mondo della definitiva esplosione: al posto di onorificenze e gloria, sfumate dopo due gare, è rimasta solamente qualche briciola, sottoforma di orgoglio da dimostrare nella terza e ultima gara dei gruppi, oltre a cinque probabili eliminazioni (di cui tre certe) su sei.
Analizzando quanto finora mostrato sul campo, l’Africa del Pallone si traduce subitaneamente in un Africa nel Pallone, vittima dei soliti abbagli difensivi, delle solite imprecisioni tecniche e, quantomeno inaspettati, di atteggiamenti consoni ad un’incerottata Svizzera (peraltro ottimamente orchestrata dal Generale Hitzfeld): troppo poca la voglia d’osare.
Gli ‘imperialisti del pallone’ hanno prosciugato, in buona fede e in nome di una visione di calcio all’europea, fucine di vivacità e sana incoscienza col tentativo d’ottenere ‘gioiose macchine da guerra’, con risultati non certo gratificanti.

Delle sei ai Mondiali, le tre che ancora possono sperare, mano agli amuleti e in seguito a makumbe d’ogni risma, sono la disattesa Algeria, il Ghana e la Nigeria. Agli arabi, gli unici diretti da un tecnico compaesano, basterebbe (si fa per dire) sconfiggere gli Yankees nel Gruppo mondiale dove sovrana è l’imponderabilità.
La Nigeria dello scandinavo Lagerback, oltre a prevalere sulla tonica e mai doma Sud Corea, necessita della disfatta ellenica con un Argentina ormai lanciata verso un comodo ottavo. Per quanto riguarda i ghanesi, a mio avviso davvero modesti ma tuttora in gara, far pari patta con la Germania significherebbe qualificazione.
Le Guen, Parreira ed Eriksonn possono versar amare lacrime per le eliminazioni di Camerun, Sud Africa e Costa D’Avorio.
Ad un Camerun irriconoscibile rispetto ad attese e standard, rimane solo l’esultanza del fenomenale leader Eto’o in seguito al temporaneo vantaggio contro i danesi, a testimonianza di una totale dedizione alla causa e coesione con la sua gente.
Ben poco può invece portare nel suo bagaglio il brasiliano Parreira, in seguito alla disfatta del Sud Africa gran cerimoniere della competizione.
L’influenza carismatica e quasi ieratica del grande Mandela e dell’arcivescovo Desmond Tutu nulla han potuto rispetto alla pochezza dimostrata in campo da Pienaar e compagni – i quali, dopo l’euforia dell’esordio- sono stati scherzati dal ciclone Uruguay.
Quanto alla Costa d’Avorio, ad incidere definitivamente sulla qualificazione sono i sette goal realizzati da un Portogallo in formato deluxe alla Corea del Nord, lontana parente di quell’orgogliosa banda ammirata contro i più blasonati verdeoro e parsa annaspare quest'oggi sotto il diluvio, peraltro ininterrotto durante la disfida.

Amaramente concludo, augurando buona sorte agli africani che ancora possono auspicare di centrare l’agognato obbiettivo.

Ke Nako, Africa!

giovedì 17 giugno 2010

pensiero & quella rete di Alcaraz



L’anagrafe recita Antolin Alcaraz Viveros per colui che, avesse voluto la sorte (e lo sprovveduto Justo Villar), ci avrebbe in un colpo solo schiaffati fuori dall’agone mondiale, salvandoci da quell’ideale reclusorio evocato in maniera così eloquente dal nome dei suoi avi- nel quale, senza particolari catastrofismi o cassandriche conclusioni, lo Stivale corre il pericolo d’inabissarsi. Quando si dice nomen omen.
Invece, la disattesa coppia Villar-De Rossi, in un frangente di sana incoscienza del primo e di machiavellica predisposizione applicata alla materia calcistica del secondo, riapre il torneo azzurro, e in un amen (tanto basta a noi Maccheroni) ci fa nuovamente ‘stringere a coorte’ da ‘Trieste in giù’, disciplina invece nella quale il carme del buon Goffredo scarseggia. Eccoci all’inno.
Lungi da me indossare le purpuree camicie garibaldine e assumere la posa (un pizzico buffonesca) del patriota imbevuto d’unitari ideali, ma di fronte a certe sozzure ammantate da goliardici baloccamenti due paroline sento il bisogno di spenderle.
Che si faccia dietrologia riguardo al lyp-sync fuori tempo dello juventino Marchisio dopo il bombardamento a tappeto cui media e giornalisti-fantoccio quotidianamente ci propinano, a questo punto, è sintomatico di un Paese scentrato in toto da quelle che dovrebbero essere, di norma, le linee guida alle quali fare riferimento.
Fa colore e folclore (e orrore) un partito (quel populista del correttore automatico ha negato la maiuscola) che, dopo anni di massima fede ad una delle regole non-scritte proprie della satira, quella del bilanciamento tra serio (in riferimento a quel ‘partito’, Il Federalismo fiscale) e faceto (culti pagani col successivo più redditizio passaggio al cattolicismo tradizionale; TRAGIcomiche concioni dai verdi predellini degli invasati esponenti) sulla quale basare il proprio attivismo politico, senta il bisogno, in nome del più classico ‘Io c’ero’, di far notare la propria presenza (quasi come se ne sentisse la mancanza, ahinoi) anche in occasione della massima competizione calcistica tramite i suoi organi propagandistici o peggio, le reti nazionali (leggasi le indiavolate esultanze dei cronisti di una certa radio al vantaggio albirrojas, o l’inno alternativo in una scuola pubblica nel feudo trevigiano).
Allora, comprensibile che l’Inno di Mameli, storicamente snobbato e mal sopportato da eterogenee porzioni d’influenza politica secondo alcuni non rappresenti l’apice della personalissima hit parade, (io stesso, secondo solo a e pochi altri Deutschland Uber Alles lo considero tra i peggiori) ma da qui sino a pretendere o anche solo proporre il suo esautoramento in favore della comunque valido coro verdiano Va pensiero, di acqua ce ne passa tanta da riempire quel catino metallico del FNB Stadium di Johannesburg. E denota la solita malcelata intenzione ‘d’usare l’Inno come clava’ (GloriaBuffo TM), di chi, affrancandosi di ogni circostanza, vuol scavare beceramente in quella fenditura astratta che già divide inequivocabilmente il Belpaese.
Di differenze e contraddizioni l’Italia si fregia ad ogni piè sospinto; interessarsi - come va di moda ora nel mondo della carta stampata e della (medi ocre) informazione- per quale nazionale parteggerà il parlamentare Tizio, il ministro Caio o il consigliere regionale Trota (ops), con le scontate risposte (e consequenziali polemiche) non premia la positiva pluralità della nazione, ma intensifica e dà linfa ad un problema comunque grave ma affrontato con il piede sbagliato. La preferenza per le casacche smeraldine- foggiatesi appena del terzo ‘alloro mondiale’ al Mondiale del Non-FIFA-Board, in quei dell’isolotto maltese Gozo (Orcoccan!)- all’azzurro sbiadito di lunedì sera è legittima , nonché grottesco; viceversa, il prestare il fianco a proclami di dubbia rilevanza, dallo spessore d’un chiacchiericcio da bar sport, pare cosa non buona né giusta (semi-cit). Seguendo la via tracciata dal sussiegoso Marcello Lippi in un apogeo di razionalità sintetizzato in una lapidaria e sbrigativa replica, capace per un attimo (solo uno, tranquillizzatevi) di accaparrarsi i consensi d’Italia, dovremmo (e a chi è deputato all’informazione della nazione, dovrebbe) ‘fregarcene’, ‘non abbassandoci a livelli così bassi’ o magari, come ho tentato io di fare fino ad ora con una discreta difficoltà, evitando di fornire le generalità di lor signori.

Tornando al match di lunedì sera, o meglio, tornando al corollario consequenziale che l’instupidimento globale derivato dalla febbre pallonara potrebbe calare come una scure sulle teste della nazione, continuo a sostenere l’effetto salvifico rappresentato dalla rete del paraguaiano Alcaraz, se fosse stata un unicum nell’avara contesa di Cape Town. Mi spiego meglio.
Una partenza anticipata dal Sud Africa dei quadricampeones eviterebbe che l’Italia dei Lippi e Cannavaro, dei De Rossi e Gilardino,con il passaggio del turno, fungesse da involontario lasciapassare all’Italia azzurro tenebra dei Berlusconi & lacchè (da buon sinistrato, oltre a vedere e non riuscire a pensare ad altri che a Lui, mi riesce difficile esimermi dal nominarlo), quell’Italia dell’impunità, della deriva culturale, dell’imbarbarimento delle istituzioni, del menefreghismo sdoganato, che avrebbe la possibilità di sfruttare - con l’attenzione degli italiani calamitata esclusivamente sulle sorti della nazionale impegnata nel torneo -il momento favorevole per ritoccare definitivamente e far passare il criminoso e dittatoriale ‘Ddl Intercettazioni’. La società civile, in gran parte distratta, allenterebbe la presa, facendo mancare quella spinta ‘eversiva’, di salutare allerta, che nei momenti cruciali come questo costituiscono il solo fattore d’incidenza riguardo ad affari sempre meno accessibili al volgo e sempre più sbrigati dall’altezza di qualche scranno.
Si rischia il baratro. Caderci dentro senza reagire sarebbe un cadeau troppo smisurato anche rapportato alle aspettative di quella banda di manutengoli, che sul ‘sonno della ragione’ hanno costruito un regime mascherato che ora anelano a consolidare. Non si può fornire il più calibrato degli assist per mettere finalmente fuori gara una terza tipologia d’ ‘Italia’, delle persone comuni (e civili), di chi non ha l’intenzione né il lusso di arrendersi.
Occhi aperti quindi e, se possibile, ‘coscienze smosse’.

Per quanto mi riguarda, dopo un inizio di Mondiale al Propofon, dominato dalla ponderatezza tattica e dalle segnature col contagocce, saluto con estremo gaudio la garra uruguagia dimostrata contro i padroni di casa, l’estroso ‘torello’ sperimentato dal nino maravilla Sanchez & compagni ai danni dei peones honduregni e lo stupore nel viso degli spagnoli, beffati dal ‘ratto’ (di partita e punti) degli svizzeri rossocrociati.

Attendo con ansia che giunga il meriggio domenicale, sperando in un gollonzo di Killen sulle note di un (De)Gregoriano Viva l’Italia.

sabato 12 giugno 2010

World Cup, Showdown!


Finalmente ci siamo. Con l'estate (solo secondo calendario) alle porte, come quadriennalmente accade, la sabbia che dal 9 luglio 2006 ha principiato a digradare dall'ipotetica clessidra, aumentando esponenzialmente il proprio flusso, è ora raggranellata sul fondo. E' la medesima sostanza granulosa propria dei bacini semidesertici del Groot e Klein Karoo, occupanti la parte centrale del suolo sudafricano, paese nel quale la kermesse economico-pedatoria (o il contrario, dipende da che punto della sfera si voglia considerare la faccenda) ha ufficialmente esordito quest'oggi alle ore 11, secondo l'orario locale.
Faccio pubblicamente ammenda: le cerimonie d'apertura- con quel loro folklorismo ostentato, con gli imbellettati dirigenti in pompa magna atti nel pregustare il blasone conferitogli dalla competizione stessa e gli introiti di cui potranno godere quando anche l'ultimo goal sarà segnato, con i balletti superflui e un poco kitsch e gli anthems composti per l'occasione mai deludenti, in negativo (la gioiosa seppur inascoltabile Waka waka, eseguita da un'adorabile Shakira incarna la più classica delle conferme) -non le ho mai digerite e, nutrendo una certa avversione per le complicazioni gastriche, ho saggiamente evitato a me medesimo una prematura indigestione catodica.
Vorrebbe Eupalla, breriano nume dell'universo rotondolatrico e vorremmo tutti Noi amanti dello Sport (sì, quello con la 'S' bella grande) che oltre ad azioni rocambolesche, bordate d'inusitata potenza, scontri e incontri dominati da tatticismi arcaici prima e da fantasia e nerbo poi, autoreti à la Niccolai (per il sommo gaudio degli esteti al contrario oltre che d'una portentosa Gialappa's) poetici e irripetibili exploit di qualche 'figlio di un Dio (e di un calcio) minore', fatica, lacrime, sudore (non sangue!) questa diciannovesima edizione dei Campionati del Mondo donasse anche al paese ospitante- arrivato al traguardo con una voglia matta di dimostrare al mondo d'aver recepito a pieno la splendida lectio del sempreverde Mandela essendosi spogliato concretamente dell'odioso razzismo- una risorsa reale. Un effettivo provento, un porto franco dal quale salpare verso il mare di povertà e malattia che strazia una consistente fetta della popolazione, per fungere da panacea.
La speranza è l'ultima a morire, diceva qualcuno. Stavolta non disdegno nel prendermi la responsabilità di troncare sul nascere ogni nostra illusione, dichiarando con un certo fatalismo misto mestizia che non una sola lira, o in questo caso 'Rand', finirà nelle imploranti mani di chi il mondiale lo vive dal retropalco. Gli oltre due milioni e mezzo di sud-africani (in grandissima parte si tratta di coloured) infetti dall'orribile virus dell'AIDS rimarranno isolati nella loro condizione d'incontrovertibile, perchè troppo estesa a macchia d'olio, indigenza.
Il Paese reale- quello degli sgomberati dalle baraccopoli nelle periferie dei grandi centri urbani sempre più occidentalizzati (Johannesburg, la capitale Pretoria, Cape City e Durban su tutti), del caleidoscopico meltin' pot d'etnie stupendamente narrato dal Premio Nobel John Maxwell Coetzee- come troppo volte accade, è separato dalle istituzioni da un'invalicabile cortina di sostanziale difficoltà ad agire e colpevole indifferenza.
Non sarà il Mondiale della rivalsa quindi, dato che chi è 'colpevolmente povero' ('stanno creando delle città dove essere povero è una colpa' dicono i leader del movimento sociale vicino agli abitanti degli slums, Abahlali Basemjondolo riferendosi all'opera della classe politica) viene letteralmente allontanato e nascosto agli occhi vergini del Mondo Benestante(altro maiuscolo), di coloro i quali si recano in Sud Africa per diletto.

Detto questo, un'agile analisi su qello che dovremmo aspettarci dall'agone.

La nostra (?) Nazionale, campione uscente grazie all'alloro tedesco del 2006 (dovrà abdicare, mi ci gioco casa tranquillamente) si presenta a Johannesburg con un gruppo la cui pochezza mndrebbe in sollucchero il Monicelli dei tempi d'oro: pensare che ce la si possa giocare con e più accreditate rivali sa troppo d'utopia.
Un Campionato del Mondo, si dirà, non si conquista solo con tecnica e beaux gestes (Brasile '82 & '06 docet) macon tigna, sorte e convinzione. Certo. Ma all'Italia lippiana, mi sento di dire senza particolare accanimento, i tratti decisivi per tentare uno storico double difettano tout-court: trovare stimoli dopo aver trionfato in Germania davanti al pubblico di casa e infliggendo una punizione che ha il retrogusto di nemesi storica ai galletti d'oltralpe, ormai storici antagonisti, è pressochè, e che se ne dica pure il contrario, impensabile.
La convinzione, prima che agli onesti gegari azzurro- vestiti, manca alla gran parte degli aficionados, o almeno quelli dalle menti non ancora irrimediabilmente oscurate dall'hooliganismo patrio.
Invocare a gran voce la terza estemporanea àncora di salvezza, aka 'Fattore C', già generoso più che mai nella scorsa edizione sarebbe sacrilego.

Se poi si tiene conto dell'attaccamento quasi feticista del cittì viareggino alle sue convinzioni calcisticamente conservatrici, come la fede incrollabile su quei 'veterani' ormai appagati senonchè spompati o la preferenza per gli scolaretti Iaquinta e Quagliarella rispetto ai 'cattivi (ma geniali) maestri' del pallone Cassano, Totti e Balotelli, l'equazione è presto fatta.

Gioco ora a carte scoperte: se, facendo fede all'antico ma mai abbastanza ribadito detto riguardo alla foma sferica della bala e alle imprevedibili conseguenze sul piano di performance e risultati, tutto quanto da me asserito con una certa (colpevole) sicumera dovesse stravolgersi, portando l'agognato trofeo nelle mani di Capitan Ca(aaaa)nnavaro la notte dell'11 luglio, da par mio non indosserò il saio come fece (forse) l'indimenticato Gioànbrerafucarlo dopo l'eclatante impresa contro il funambolico Brasile (quello vero, con Zico, Socrates, Falcao e altre bocche da fuoco) ma, non me ne si voglia, ne prenderò freddamente atto. Una volta di più, ciò che a detta di molti consisterebbe nel fascino dello sport più amato, giocato e vissuto al mondo- il suo impronosticabile esito- consisterà nella pietra tombale della spettacolarità e dell'estetica sportiva.

Questo intervento è il primo di una serie che prometto già essere discontinua e il meno possibile tematica: una gioiosa anarchia la farà da padrona. Cercherò di affiancare al Mondiale sudafricano, che fungerà da substrato e da contesto, gli spunti extracalcistici infilatisi arlecchinescamente tra un goal e l'altro, una conclusione sui 'popolari' e una parata 'por la estampa', così lampanti (secondo la mia scala valoriale) da non poter essere lasciati ad ammuffire nelle segrete della mente. Insomma, si cazzeggierà allegramente.

Nel prossimo scritto mi arrischierò su un paio di pronostici, cercherò di fornire uno screening generale delle compagini più 'interessanti' e, se si paleserà il ghiribizzo, di accennare minimamente ai primi due match del Girone A, tanto 'boring' da rievocare i fasti del calcio londinese anni '70, sponda Gunners.

Ora, vado a coricarmi, con il muggito indigesto delle Vuvuzela ancora riecheggiante nelle orecchie.

(scritto l'11 giugno, vergato in questo loco il 12)