giovedì 5 luglio 2012

LEDIECI bellezze del Tennis


10 - Aranxta RUS


L’olandesina di Monster. nella nostra graduatoria è la bellezza che occupa anche la posizione di classifica più bassa (attualmente n 73). Da ex-regina del tennis giovanile a giant-killer in pochi mesi, sbatte fuori dallo scorso Roland Garros la ben più quotata Kim Clijsters.
Conferma il suo ruolo di mina vagante sui verdi campi di Wilmbledon nel 2012, estromettendo dal torneo Sam Stosur, numero 5 del seeding. Visino da cerbiatta e gambe chilometriche i suoi punti di forza, oltre ad un buon rovescio bimane. NUOVA SPERANZA




9 - Daniela HANTUCHOVA

Racchette, dritti e perseveranza si sono sovrapposti a precluderle un scintillante carriera anche nel mondo della moda.
Non ci si può lamentare, date le oltre trenta finali giocate tra doppi e singoli. Prima slovacca a sfondare la barriera delle Top 5 (stagione 2003) vanta un grande Slam nel doppio misto.
Tra il 2001 e il 2005 è riuscita difatti ad aggiudicarsi tutti e quattro i maggiori tournament.
Curiosità: il partner era sempre diverso. Accecati dalle svariate qualità, non ci si stupisce se la coda per un posto affianco alla bella Daniela è sempre stata copiosa. Il servizio (da leggersi extra-tennisticamente) per il magazine Sport Illustrated è un vademecum per chiarivi le idee. ELEGANTE





8 - Flavia PENNETTA

Un po’ di sano patriottismo. E’ il 2009 e la brindisina raggiunge il suo miglior piazzamento di sempre (10) e la conseguente fama a livello internazionale. Ma ad avvicinare i curiosi al suo tennis, più che le folgoranti performance o i rovesci lungo linea sono alcune pregevoli uscite. ‘Una bottarella la darei a Safin’, ‘con Moya era sesso libero’ e ‘cerco l’uomo giusto ma non rinuncio al sesso’ alcune delle sue perle.
Tennisti italici, armatevi di palle e mazz…ehm, racchette! FOCOSA



7 - Maria KIRILENKO

Oltre ad un discreto numero di titoli (16 tra doppi e singoli), può vantare uno dei fisici più atletici e meglio proporzionati del circuito.
Highlights della sua precoce vita tennistica: l’aver avuto la meglio della Stosur nel tie-break più duraturo della storia durante il quarto turno degli U.S Open ed esser la testimonial della linea d’abbigliamento sportivo lanciata da Stella, figlia del celeberrimo beatle Macca.
Ad esser sinceri la si ricorda protagonista di una sfida all’ultima curva con la Zarina del circuito, la connazionale Maria Sharapova. In nessun altro match tennistico la destinazione della pallina ha avuto così poca rilevanza. Potete contarci. PIN-UP



6 - Elena DEMENTIEVA

Ritiratasi nel 2010, la graziosa Elena rappresentava e rappresenta tutt’ora un’anomalia nel panorama femminile. Discreta, intelligente, potente ma con classe e, tragicamente, totalmente priva di servizio.
Il suo gioco gradevolissimo, nonostante questa ossessione con cui Freud sarebbe andato a nozze, l’ha issata al terzo scalino dell’Olimpo tennistico, regalandole 19 titoli in singolare.
Più che delle disarmanti qualità estetiche, un posto in questa lista gliel’assicura quel suo essere (e apparire) così garbata, discreta, affascinante. FATINA



5 - Simona HALEP

O ‘un corpo a servizio dello sport’ (ahinoi). Di marcuzziana indole, la Halep, avendo ricevuto in dotazione da Madre Natura una coppia di oggettini che, per sua stessa ammissione ‘andavano ridotti’, a soli vent’anni corrompe per sempre il generosissimo dono offertole.
Così facendo, sempre secondo la sua rispettabilissima opinione, potrà finalmente competere al non-plus ultra delle sue potenzialità. Sarà. Certo, finora i risultati le danno pure ragione: un 37esimo posto raggiunto quest’anno non è certo un risultato da gettare alle ortiche ma se non porterà a casa qualche importante trofeo, la ‘Nuova’ Simona cadrà definitivamente nel dimenticatoio.
A noi piace ricordarla così. BAMBOLA RAMONA



4 - Cvetana PIRONKOVA

La giovane bulgara, eccetto un grande Wimbledon 2010 con tanto di semifinale, s’è più volte confermata una giocatrice di discreto livello, senza l’ambizione (né le potenzialità) per la vittoria di un torneo importante. Stabile nelle prime 50 posizioni, difficilmente entrerà tra le prime venti. Record personale: è in vantaggio per tre match a uno con la ‘Venere nera’ Venus Williams, una delle regine dello sport moderno.
Munita di uno dei volti più graziosi dello sport mondiale, la giuria di MSN l’ha prontamente inserita nella cerchia delle sportive most good-looking.
Look senza pretese e bellezza limpida, ha tanto l’impressione della tua vicina di casa così educata e sorridente che però non te la dà. ACQUA E SAPONE



3 - Ana IVANOVIC

La bellezza serba, considerata da molti la numero 1 in fatto di piacevolezza, ha avuto la sagacia e la fortuna di trovarsi a competere in una congiuntura temporale assolutamente favorevole. Sfruttando la quasi totale assenza di avversarie valide, è balzata in vetta alle classifiche nel giugno 2008.
 L’apice del successo arriva con il trionfo agli Open di Francia, in un vero e proprio testacoda estetico. La sua avversaria è Dinara Safina alias il gemello brutto di Marat. 6-4; 6-3 per l’avvenente Ana e tutti a casa. Nella foto accompagnata da Nole Djokovic, l’attuale best tennis player e senza dubbio anche non l’ultimo degli idioti. GORGEOUS



2- Stefania CHIEPPA

Altro orgoglio nazionale. Sono convintissimo ci sia stato un imperdonabile quanto diplomatico refuso all’anagrafe, date le caratteristiche della Nostra. Mai spintasi oltre al 359 posto, una così non poteva rimanere fuori da una lista del genere. Anche se preso l’arnese (a freno le battute!) in mano per qualche secondo. Vincitrice di una quindicina di tournament minori, ci si augura che la sua posizione migliori giorno dopo giorno. MISS ITALIA





1- Maria SHARAPOVA

Non ci sarebbe null’altro da aggiungere. Il viso (il nome e il fisico) più celebre del Tennis, tanto da giocarsela pure coi colleghi maschi.
L’icona sportiva divinizzata.
Dalla linea d’abbigliamento personale, alla produzione di caramelle recanti il suo nome.
Dalle notti di sesso con Adame levine dei Maroon 5 (e relativo svillaneggiamento della di lei performance) alle reciproche imitazioni con Djokovic. Nulla è lasciato al caso né viene tralasciato dai media. Nessuna tennsita si era (ed era stata) spinta così in fondo. In mezzo a tutto ciò, anche parecchie vittorie, qualche guaio fisico e l’attuale numero Uno del ranking WTA.
E non c’è avversaria, che dal punto di vista fisico o sportivo, possa ergersi ad esempio prima d’essersi confrontata con Masha. La vetta di questa graduatoria non può che appartenere a Lei. DIV(IN)A



giovedì 21 giugno 2012

Calcio e magie tra gli isolotti




Il Fifa Anthem risuona solenne e il profumo dell’inaspettato solletica le nari australi. E’ l’8 giugno e lo sfondo non è certo il Narodowy di Varsavia, catino che qualche ora dopo ribollirà di aficionados, rutilanti attese e ambizioni da grandeur del pallone.
Trasliamo l’attenzione a circa 15.000 Km, laddove il giorno si fa notte e i nostri simili deambulano capovolti. Laddove i vulcani la fanno da padrone e ridisegnano il territorio a loro piacimento.
Laddove la politica interna riproduce fedelmente le mutazioni morfologiche, a suon di rimpasti governativi e voti di sfiducia.
Laddove, sì, anche il quasi estinto dugongo ha diritto di cittadinanza. Le Isole Salomone.
Ridente coppia di arcipelagi, in cui è il maggiore a portare il nome dello stato, ospitano quest’anno la quadriennale Coppa delle nazioni oceaniche.
E’ uguale in tutto e per tutto ai Campionati Europei, fatta eccezione per le bolse autorità della Fifa presenti sugli spalti, Cristiano Ronaldo e le sue ‘fiamme’ a rotazione settimanale, gli ingaggi plurimilionari, addetti stampa e tv provenienti da ogni parte del globo, i quartier generali delle città assediati da sostenitori ubriachi e molesti, le intere schiere di forze dell’ordine mobilitate per l’occasioni e altre minime differenze che ci si potrebbe stilare un elenco telefonico.

Durante lo svolgimento, si tratta della nona occasione, si sono affrontate otto nazionali, scisse in due gironcini. Poi semifinali, finalina e finale.
Da una parte la nuova Zelanda, superfavorita, fresca di uno storico record: quello dei kiwies sono è l’unico undici ad uscire imbattuto dal Mondiale 2010. Fermare i campioni del Mondo italiani, imbrigliarli grazie ad una sagace ed esasperata tattica difensiva, costringendoli ad uno scialbo 1 ad 1 è un risultato non da poco. Dall’altra, le altre sette, simpatiche compagini di generosi dilettanti, adagiate sul fondo del ranking FIFA.

Ora, tentando d’evitare il più possibile la retorica del calcio ‘puro’- lontano da paillettes e riflettori, estraneo agli scandali e giocato dai bambini privi di scarpe ai piedi ma colmi di sogni nel cassetto – cerco di illustrare ciò che è successo in questo ottogiugnoduemiledodici. Così, tutto d’un fiato lo reciteranno un giorno gli artefici dell’impresa, non dimenticandone mai la data.
Un po’ come noi italiani terremo sempre nel cuore quell’11 luglio dell’82 in cui sopraffammo la Germania. In questi casi, più e ancora degli istanti emotivi e delle immagini, rimane la data.

Ma torniamo a Honiara, dove ha luogo l’intero torneo. Seminfinale.
La Nuova Zelanda vincitrice già di metà delle edizioni precedenti giunge in semifinale a suon di contro-gioco e vittorie striminzite, dando comunque grande impressione di solidità.
La sfidante è la Nuova Caledonia, dipendenza francese dalle vedute paradisiache.
Di tutt’altre fattezze il cammino fino alle semifinali dei ragazzi di coach Alain Moizan, girovago nell’universo del football francaise.
 Dopo una soddisfacente carriera oltralpe da centrocampista, coronata anche da 7 cap in nazionale maggiore, eccolo approdare sulla panchina del Mali, per poi proseguire su quella della Mauritania dal 2008. Da quest’anno offre la sua esperienza ai ragazzi melanesiani. 17 reti totali nei match contro Vanuatu, Tahiti e Samoa sono valse alla Nuova Caledonia il secondo posto nel girone A e lo scontro con i favoritissimi all whites.
 La sfida è l’esempio più limpido di un ‘Davide vs Golia’, ma inscenato tra palmizi, tifosi in bermuda, danze e risate. Gli under dog melanesiani partono subito fortissimi e Gope Fenepej (un nome un programma) fa breccia nella difesa neozelandese e tocca dolcemente per Jacques Haeko, che appena dentro l’area esplode un destro che si infrange sul palo a Gleeson battuto. Potrebbe sembrare il solito fuoco di paglia degno delle cenerentole del pallone, capaci di mettere fuori il naso nei primi minuti per poi arretrare prestando il fianco alle veementi scorribande avversarie. Non sarà così.
Il primo ‘pericolo’ la difesa lo corre al trentaseiesimo della prima frazione, con una velleitaria incornata di Smeltz che termina a un metro dalla porta custodita dall’estremo difensore francofono.
Colui che timbrò il cartellino contro gli azzurri di Lippi e fornì all’Italia sportiva motivo di vergogna mai provato prima, è reso impotente da una decina di isolani naives.
La partita sonnecchia anche ad inizio ripresa e s’appresta ad esser afferrata da un istante all’altro dai neozelandesi, i quali con una rete già se l’assicurerebbero. Invece, il nulla.
Fino a che, dopo circa un’ora di gioco, i kiwies iniziano a percepire nell’aere non la fragranza straniante degli esotici doni della terra ma un aroma che contrae loro la muscolatura e obnubila i sensi. E’ una miscela di sensazioni contrastante; i giganti appaiono bolsi ed appesantiti.
Le gambe si fanno d’argilla e la corsa, asse portante dei risultati del passato, riesce difficoltosa. E’ l’aroma dell’inaspettato, della sorpresa, che da lì a poco non tarderà a palesarsi.
Lancio dalla difesa caledoniana, aggancio appena sfiorato dal solito Haeko e…la retroguardia neozelandese sembra cullata da un’ondata di nostalgia dei tempi andati. Pare d’assistere ad una manche d’un due tre-stella, con i difensori piantati sul terreno ad osservare la sfera capitare sui lesti piedi di Bertrand Kai, funambolico rifinitore avversario. The Great, questo il soprannome coniato per l’occasione dai supporters, sul pallone si avventa invece con astuzia e rapidità e lo carezza da sotto, superando l’incolpevole Gleeson. Esplode il Lawson Tama Stadium che da campetto da oratorio diviene polveriera. Moizan e il suo staff, balza dalla sedia come un tappo di champagne, incredulo ma già parzialmente consapevole dell’ottima prova dei suoi.
I neozelandesi, ancora visibilmente scossi, provano a reagire immediatamente, ma il destino pare aver già deciso a chi sorridere.
Al 66’, in seguito ad una rimessa laterale in zona d’attacco il pallone capita tra i piedi di McGlichey che senza farsi pregare scossa il sinistro a botta sicura. Il tonfo sordo della sfera della traversa è melodia eterea per le orecchie dei caledoniani. Sarà l’ultima vera sortita per i kiwies.
 I ragazzi di Moizan tengono bene il campo e colpiscono fulminei in contropiede a tempo scaduto: Gope Fenej con un pregevole tocco scrive definitivamente la storia.
Le celebrazioni a fine gara si espandono a macchia d’olio assumendo le forme di un balletto liberatorio.
 La gioia è contagiosa, così come l’incredulità.

 I caledoniani piangono e s’abbracciano, ai neozelandesi solo la certezza d’aver recitato, una volta di più, la parte del cattivo.
 Del colòno che s’impadronisce della terra ma ne perde la vera essenza.

Ora, tra palmizi, banane, tramonti spettacolari e sorrisi, a ritmo di danza torniamo nei nostri luoghi natìì, emblemi d’occidente un po’ piatto e pragmatico.
Salutando queste magiche isole, laddove l’importanza del fine (la vittoria) è secondo alla piacevolezza dell’atto (il gioco).
Laddove nessun lucchetto o recinzione preserva lo stadio dagli spettatori abusivi .
Laddove, per qualche strano incantesimo, la vittoria degli invasori dovrà attendere ancora.

*Per la cronaca, la finale, Tahiti-Nuova Caledonia è terminata uno a zero per i tahitiani, regalando loro coppa e l'opportunità di qualificarsi ai Mondiali






mercoledì 6 giugno 2012

Artem Milevskiy, 'Tanto talento per nulla(per ora)'



Se esistesse l’Università del Calcio, Artem Milevskiy ricoprirebbe il ruolo di accademico in ‘Dissipazione di talento e deterioramento del proprio fisico’, agile corso in 10 lezioni frontali.
Più Robin Friday che George Best, più Eduard Streltsov che Andriy Shevchenko.
Avrete ben noti l’Usignolo di Kiev e ‘il quinto Beatles’, ma gli altri due?

Friday, offerto alle masse di feticisti del pallone grazie ad un’encomiabile esegesi da parte del duo McGuigan-Hewitt, fu una punta tecnica e potente, in grado di accorpare in un sol uomo alla potenza dei centravanti ‘ all’inglese’, l’imprevedibilità e una tendenza alla giocata d’effetto proprie di un funambolo.
Un hide Best, con più esattezza, dato che nei soli sei anni di calcio professionistico a ricordare le sue gesta, condite da svariati vizi e rarefatte virtù, rimangono sparuti tifosi di Hayes, Reading e dei gallesi Bluebirds ( Cardiff F.C), club ai quali ha prestato i servigi.
 Tra le tante, l’abbandono del campo a match in corso con conseguente ritorno, appena in tempo per far compilare, sotto la voce ‘Goal’ , il proprio nome. Motivo dell’assenza? Un paio di pinte al pub adiacente il Church Road, casa dell’Hayes. Magico.


L’altro, Eduard Streltsov, fu il ‘Pelè bianco’, il diamante cristallino che Cremlino, Kgb e lo Stato Maggiore-cioè la summa dei reggenti sovietici- nei tardi ’50 cercarono di far assurgere a vessillo dello sport comunista. ‘Donne, vodka e gulag’ è il titolo di un libro recentemente uscito, che bene riassume storia e passioni.
Il talento, nato nelle fila della Torpedo Mosca, ribelle e sbarazzino come il proprio ciuffo, rifiuta caparbiamente le offerte da alcuni dei club più blasonati dell’intera Madre Patria, allora controllati da Politbjuro ed esercito, facendo montare nei suoi confronti fastidio e volontà punitiva. La scure sovietica s’abbatte su Eduard nell’occasione d’una festa di Partito sottoforma di pettegolezzo: secondo le voci Stretsov avrebbe abusato carnalmente di tale Maria Lebedeva. Nemmeno il tempo di proclamare la parola ‘innocenza’, che viene sbattuto a Butirka, terribile luogo adibito ai lavori forzati. Gli danno dodici anni, ne sconterà sette. Lunghissimi.
Dal ’65 torna a vestire la casacca della sua Torpedo, con cui vince il secondo ed ultimo titolo. Non sarà però più lo stesso. Si spegne, malato di cancro e d’ingiustizia, nel luglio del ’90.

Di questi due potenziali campionissimi, vittime di se stessi e d’un destino crudele e beffardo, si ricorda ben poco. Sembra, suo malgrado, parzialmente seguire la scia il pennellone ucraino Artem, figlio di Bielorussia e trapiantato in Ucraina dal 2002.
Il ragazzo, nonostante l’insoddisfacente prestazione dei bielorussi agli Europei di categoria (U-16) viene notato e subito naturalizzato dalla tempestiva federazione ucràina. Ed è proprio ad inizio duemila che la sua carriera incomincia a decollare.
Guadagnatosi un posto in squadra nella gloriosa Dinamo Kiev, prende parte all’Europeo Under 21, dove traghetta la sua nuova nazionale ad una perdente finale. Nella fase a gironi, il Nostro realizza un rigore a cucchiaio. Verrà inserito nella top 11 del torneo.
Oleg Blochkin, lungimirante cittì gialloblu ed ex-bomber, un mese dopo lo porta con sé alla World Cup tedesca, con l’intento di fargli fare qualche sgambata. Fino al supplementare degli ottavi di finale non troverà spazio e la sua sembra una convocazione di circostanza.
Poi, l’epifania.
Colonia, 26 giugno. Calci di rigore. Sbagliano Streller, Barnetta ed il Pallone d’Oro Shevchenko.
Tocca ad Artem. E’ il secondo penalty per i suoi.
 Entrato da pochi minuti in campo, si avvicina al pallone, lo sistema sul dischetto. La prossemica non pare delle migliori: l’occhio è vitreo, la rincorsa ingobbita e goffa, invece…



Ecco, un ventenne che riesce a ripetere un rigore al modo di Panenka, con gli occhi di una nazione e oltre addosso, la stoffa ce l’ha. Inter, Bayern Monaco, Valencia, Lazio e West Bromwich Albion, solo per citarne alcune, negli anni si interessano a lui.
Non se ne fa mai nulla, in buona parte perché per convincere le alte sfere della Dinamo Kiev ci vuole più di qualche rumors.
Gli ucraini si tengono stretto il proprio gioiello, di fatto imprigionandolo tramite contratti d’oro e clausole, con la speranza che li riabituerà a dominare come ai tempi della coppia Sheva-Rebrov il campionato nazionale.
Di risultati individuali ne porterà pure all’ovile, su tutti il titolo di capocannoniere nel campionato 2009-10, ma l’affacciarsi alla ribalta dello Shakthar Donetsk porta via, nell'ultima decade, ben sei titoli alla compagine di Kiev.
Tecnica cristallina, fisicità prorompente e una personalità da top player sono micce in grado di far ardere l’interesse dei vari club europei, i quali fuochi passionali vengono spenti sul nascere dalle discrepanze comportamentali del giocatore, dall’impegno a volte insufficiente, dallo spassionato amore per l’alcool.
La maxi-offerta capace di strappare Artem ai suoi ormai decennali padroni, non è ancora giunta a destinazione. Le notti passate nei night club della capitale assieme al compagno di merende (e bevute) Aliev sono già leggenda.
Gira su internet questo filmato in cui un imitatore ucraino fa il verso al Nostro, dipingendolo come un ‘tuffatore’ dedito ad alcool e fumo.
http://www.youtube.com/watch?v=xcsw84V-6yI&feature=related

In un calcio dove i club europei sembrano, a livello di mercato, sempre più privi di fantasia ed idee, in cui- prendendo ad esempio l’Italia- fino a un paio d’anni fa si sperava a torto in una rinascita sportiva di giocatori ‘bolliti’ come Adriano, Toni o Iaquinta, che non ci sia un posto per Milevskiy pare strano.
L’Ibrahimovic d’Ucraina’ come lo chiamò, in una delle poche intuizioni calibrate Fabio Caressa, merità di più.

Più di alcool, donne e dimenticatoio.

L’Europeo sarà la sua ultima chance.

удачі Чарлі, Artem!



mercoledì 23 maggio 2012

Giochiamo a fare il c.t.




Dopo che l’intero Belpaese s’è dovuto sorbire le atroci (quanto vergate con la ben nota arroganza) convocazioni, dell’ex (deo gratias) cittì Marcello Lippi, con conseguente e prevedibile Waterloo tricolore in quel di Sud Africa 2010- i 32 nomi indicati dal selezionatore Prandelli riportano almeno in parte la barca italica sulla giusta rotta.
Dubito fortemente che il giorno primo luglio si potranno ammirare ‘garrire al vento’ tricolori dai balconi patrii, ma una figura più dignitosa rispetto alla debacle lippiana ce la si può quantomeno aspettare.
Qui sotto riportata la pre-selecao azzurra. Solo 23 dei 32 virgulti chiamati all’appello avranno la fortuna di volare alla volta di Danzica, appezzamento storicamente soggetto a stravolgimenti e vicissitudini leggermente più impegnativi della tenzone italo ispanica che, per quanto ancora sappiamo, sarà circoscritta al rettangolo verde.

Portieri: Buffon (Juventus), De Sanctis (Napoli), Sirigu (Paris St. Germain), Viviano (Palermo).
Difensori: Abate (Milan), Astori (Cagliari), Balzaretti (Palermo), Barzagli (Juventus), Bocchetti (Rubin Kazan), Bonucci (Juventus), Chiellini (Juventus), Criscito (Zenit San Pietroburgo), Maggio (Napoli), Ogbonna (Torino), Ranocchia (Inter)
Centrocampisti: Cigarini (Atalanta), De Rossi (Roma), Diamanti (Bologna), Giaccherini (Juventus), Marchisio (Juventus), Montolivo (Fiorentina), Thiago Motta (Paris St. Germain), Nocerino (Milan), Pirlo (Juventus), Schelotto (Atalanta), Verratti (Pescara)
Attaccanti: Balotelli (Manchester City), Borini (Roma), Cassano (Milan), Destro (Siena), Di Natale (Udinese), Giovinco (Parma).

Facendo balzare l’occhio, anche rapidamente, sui 23 nostri connazionali presenti in Sud Africa che, ahiloro (e ahinoi) ebbero l’ingrato compito di rappresentarci pedestremente, almeno un terzo delle scelte mi sembrò assurda, un altro terzo non condivisibile tout-court.
Tenendo conto delle nostre (scarse) risorse in Ucraina & Polonia 2012, a giustificare alcune opzioni, si riuscirà forse a seguire le gesta dei Nostri senza attacchi di nausea o l’ausilio di boule d’acqua gelida sulla fronte.
Il simpatico divertissment, che una volta ogni due anni preannuncia l’estate più delle prime calure e dei malori degli ottuagenari, col quale mi cimenterò consiste nell’indossare i tricolori panni ‘ dell’etico papà’ Prandelli e diramare la lista definitiva per questi Europei, sulla falsariga di quella iniziale.

PORTIERI

 Il posto da titolare non è in discussione. Se manterrà il livello di performance mostrato quest’anno con la sua Juventus, possiamo sentirci difesi da uno dei cinque migliori goalkeepers della competizione. Manderei a casa Sirigu, nonostante la buona stagione al Parc de Princes: inamovibile De Sanctis e troppo buona la scorsa stagione di Viviano, da miglior portiere europeo probabilmente, per non premiarlo con un posto nella compagine.

DIFENSORI

 Iniziano le disarmonie con le scelte del c.t, seppur non definitive. Balzaretti, Barzagli, Chiellini e Maggio sono nomi già confermati e da confermare, sia secondo le mie vedute che secondo quelle ufficiali. Terrei di forza Ogbonna, in prospettiva con Chiellini il miglior centrale italiano in circolazione e muraglia del reparto arretrato granata.
Europeo anche per Abate, che temo venga, a torto, tagliato: Ignazio è da due anni il rossonero più continuo, indipendentemente dalla competizione. Lasciarlo in Italia consisterebbe in un reato.
La decisione che mi fa più stranire è la mancata selezione di tale Davide Santon, precocissimo fluidificante sinistro dal discreto passato nerazzurro e capace di ritagliarsi, a soli 20 anni, un posto fisso nei magpies ( Newcastle United F.C) alla corte di Pardew. Ambiguità del calcio.
Come ottavo difensore, se servisse, porterei Bonucci, scongiurando di doverlo utilizzare il meno possibile: nel finale di stagione è piuttosto migliorato ma la papera al momento decisivo è dietro l’angolo e il buon Leonardo è giocatore indicato a commettere simili prodezze. Via Astori (all’Europeo ASTORI?? No grazie).
La chiamata per i due ‘sovietici’ rientra nell’immensa gamma dei concetti che rendono il calcio il gioco maggiormente seguito e indecifrabile al mondo: non mi sono mai sembrati fenomeni (soprattutto Bocchetti) e militano nella Premier Ligue russa, campionato di livello inferiore al nostro. Abbiamo di meglio al di qua delle Alpi. Ranocchia paga la pessima annata in nerazzurro, ma il ragazzo ha talento; non mi stupirei di trovarlo titolare ai prossimi Mondiali.

CENTROCAMPISTI

Non si toccano Pirlo, De Rossi, Marchisio, Thiago Motta e Nocerino.
Se il calcio fosse giusto e totalmente scevro da spinte popolari e decisioni prese con un occhio indirizzato a stampa e Federazione, Verratti , talento adamantino ed intelligenza calcistica fuori dall’ordinario, sarebbe già in Polonia. Può agire sia da collante tra mediana e reparto difensivo in vece di Pirlo, che come (e qui sarebbe il sogno) trequartista. Partendo dalla panchina sarebbe il jolly che nessuno in Europa s’aspetta. E invece, la vita, la nazionale italiana e la voglia d’osare di Prandelli sono quelle che sono, quindi il gufetto tornerà nella sua Pescara.
 Come settimo ed ultimo centrocampista porterei, contro il volere d’una nazionale intera Simone Pepe; Madre Natura non gli ha donato una classe sopraffina ma è una pedina ficcante quanto basta nella Juventus campione d’Italia, ha grinta, corsa ed ha mostrato prestazioni confortanti dal post-Mondiale 2010 dove invece fu impresentabile.
Si paga la solita, turpe tassa sull’obbligo della nazionale azzurra d’esser sempre un po’ ItalJuve con la scelta di Giaccherini (GIACCHERINI!!), uno scandalo sotto gli occhi di tutti sul quale non mi pronuncio oltre. A la maison. Taglierei senza pensarci troppo pure Cigarini, Diamanti e Schelotto, su tutti il bolognese: qualche lampo di gran classe offerto alle platee con troppa intermittenza. Se nella mia spedizione ideale potessi avere al mio fianco un ventiquattresimo uomo, quello sarebbe Riccardo Montolivo, dotato di ottima tecnica e buona visione di gioco. Purtroppo se ci fosse un indicatore di grinta, la sua , misurata, non supererebbe quella d’una beghina in chiesa alla domenica. Grande talento e discreto vice-Pirlo, ruolo nel quale piuttosto mi ci giocherei il già citato Verratti.

ATTACCANTI

Mr. ‘Why always me?’ Mario Balotelli, capace di giocate decisive e gesti tecnici d’altri tempi è il miglior azzurro, senza mezzi termini. Gli si perdonino le innumerevoli performances non propriamente calcistiche (dallo svagarsi lanciando petardi dal bagno di casa con conseguente incendio provocato, al tiro a bersaglio umano con pistola giocattolo in centro a Milano, passando per le numerose puntate negli strip-clubs albionici), gli Europei si giocano e vincono con classe, senso del rischio e qualche giocata estemporanea. Non necessitiamo di onesti gregari con tanta creanza e poco velluto nei piedi, di quelli abbondiamo già. Accanto a lui Giovinco da trequartista e Totò Di Natale come seconda punta sembrano e saranno i pari ruolo che tenteranno di creare palpitazioni alle retroguardie ispaniche, irlandesi e croate.
Aggregherei al gruppo dei partenti un’altra testa-matta dal talento cristallino: Antonio Cassano. Il gioiellino di Bari Vecchia s’è lasciato alle spalle ormai l’ampio portfolio di ‘cassanate’ e nel Milan di Allegri a svolto un ruolo da protagonista l’anno passato e da motivatore in questa stagione. L’attaccamento e la passione per il suo lavoro, chiarificatisi ulteriormente dopo che un ictus rischiava di precludergli carriera e vita, ci hanno consegnato un Cassano voglioso come non mai di calcare i campi e regalare perle rare al pubblico pagante. Perché non dargli una chance?
A completare il parco attaccanti non mi priverei, nonostante l’esiguo bottino di reti messe a segno con la maglia dell’Internazionale, di Giampaolo Pazzini; senso del goal, una grande capacità aerea ed una discreta esperienza le sue carte migliori: potrebbe risultare utilissimo ad Europeo in corso. Tra i due grandi delusi, lui e Matri, scelgo il ‘Pazzo’, in nome della sua maggiore esperienza a livello continentale e di un maggior ‘killer instinct’.
Da rivedere (e quindi per ora accantonare) Borini, talentino nostrano mandato in gioventù a ‘farsi le ossa’ nelle giovanili del Chelsea. Gavetta che gli è senz’ombra di dubbio stata proficua dato l’inizio campionato sbalorditivo. Poi s’è un po’ perso, tra la maretta dell’ambiente romanista e el projecto naufragato dell’ ‘uomo vero’ Luis Enrique. Ci fossero sette post per i bomber, la scelta ricadrebbe senza dubbio su di lui. Peccato.
Fosse per me rimarrebbe in Italia pure Destro. Il giovane attaccante è stato sì autore di dodici goal con i quali ha condotto il Siena a totalizzare un ammontare di punti record nella storia del club; gli Europei sono però altra cosa, ergo stesso discorso riguardante Borini.
Siccome non vedo nella nostra compagine talento, sagacia, né vincenti nati a sufficienza per arrivare in Polonia & Ucraina con ‘qualcosa da perdere’, tanto vale tentare di sorprendere la concorrenza portando con me uno degli artefici di quella meravigliosa cavalcata che ha visto il Pescara Calcio all’inverosimile traguardo della Serie A: Lorenzo Insigne. Classe ’92 ha portato per mano-assieme ai compagni di reparto Immobile e Sansovini e ad altri giovani atleti- il Delfino nel calcio che conta davvero, attirando su di sé e i compagni infiniti elogi ed encomi. Il Magnifico, il Messi dell’Adriatico, com’è stato soprannominato dai suoi fans estatici, di goal comuni alla pulce blaugrana nel biennio di grazia 2011-12 ne ha messi a segno molti. E reti del genere non si dimentica mica a farle, nemmeno salendo di categoria. Per eventuali conferme, citofonare Zdenek Zeman.

LA FORMAZIONE.

Le parole d’ordine: rischio e sperimentazione. Interpretandole sul piano non del modulo ma della mentalità e in fede a quell’assunto così inusitato nel calco del ‘gioca chi merita’, questo l’11 di partenza: Buffon a guardia dei pali, in centro alla difesa Chellini e Ogbonna, a sinistra Santon mentre a destra Abate. Tridente scontato a centrocampo: Pirlo, Marchisio, De Rossi. Rombo chiuso al vertice alto da Giovinco, che giocherà alle spalle del tandem Balotelli-Di Natale. A subentrare se i loro pari ruolo non dovessero essere all’altezza o se la partita ne necessitasse la presenza, Maggio, Thiago Motta e Insigne.

Felice di ricredermi una volta che le scelte reali porteranno a casa almeno una semifinale. Capirò finalmente perché sulla panchina azzurra siede Prandelli e non il sottoscritto o nessuno dei ’59 milioni di allenatori presenti in Italia’.

Che il gioco abbia inizio.

domenica 15 gennaio 2012

Porquè....il Derby!


‘Guarda: la palla rotola. E’ strumento unico al mondo. Tu prova a fare cento corse con Mennea o Borzov; prova a fare cento rounds con Cassius Clay; prova a sorpassare dieci volte Niki Lauda: perderai sempre. E invece la palla vola. Su cento dribbling con Pelè puoi vincerne uno, perché il corpo tuo o suo si sbilancia, perché il filo d’erba aiuta te e non lui. Sai cos’è il football? E’anche uno scorfano, un rachitico che se lo guardi gli dai un posto da sciuscià, poi cerchi di prendergli la palla, lui è il contrario dell’atleta ma si chiama Omar Sivori e tu la palla contro quel racchio te la sogni. Non dire: i miei argentini. E’ ingiusto. Domani è il solito mistero. Almeno speriamolo’

Così, per bocca del suo alter ego Arp, Giorgio Arpino in quel totem sportivo-letterario che è ‘Azzurro Tenebra’ enuncia il sunto del mistero chiamato Calcio, il più imponderabile e aleatorio esercizio agonistico. A poche ore dalla stracittadina milanese numero 201, dai parrucconi della carta stampata alle casalinghe di Voghera, passando per addetti ai lavori e aficionados da bar, si sono sprecati i vaticini e le chiaroveggenze. Da parte mia, prevenendo un duro colpo alla reputazione di betters , mi limiterò a fornire alcuni porquè, ovverosia le ragioni secondo le quali dovrebbe prevalere l’uno o l’altro schieramento, il ferreo Milan à la capello sotto l’egida di Max Allegri o le ‘lacrime, sudore e sangue’ predicate da Mister Ranieri per la sua Inter.


Porquè il Milan:

-Thiago Silva, K.P Boateng & Zlatan Ibrahimovic ovvero L’Ultimo Imperatore, la Rabbia Giovane e Z. il Mostro di Malmo. Con loro in campo per i nerazzurri la serata potrebbe trasformarsi in una ‘notte terribile e confusa’.

- Ricky Alvarez, l’Elogio alla lentezza, just for tonight nei panni di Wesley Snejder, vero e proprio crack della mediana non ancora al meglio della condizione e quindi spettatore aggiunto non-pagante, almeno(si pensa) al fischio d’inizio.

-la variante P. Il Paperino, dichiarato in settimana a scanso di equivoci il rifiorito trasporto per la maglia, potrebbe, subentrando dalla panchina, impersonare la freccia decisiva nell’arco rossonero per scardinare le compatte maglie della difesa avversaria.

Porquè l’Inter:

-Le forze al netto in campo, i punti in classifica e la solidità difensiva ritrovata dai rossoneri sembrerebbero giocare a sfavore dell’11 morattiano ma nel mondo pallonaro 3 indizi quasi mai forniscono una prova..

-la fiducia derivante dall’essersi riscoperta, ad un tiro di schioppo dall’inizio del derby, la terza forza del campionato, come le spetta di diritto.

Le Incognite

-il Trio Van Bommel, Ambrosini, Nocerino as know as per il tocco di fino rivolgersi altrove. Se è vero che il fulcro di una squadra è il centrocampo, quello schierato stasera da Allegri rassicura fino ad un certo punto. Se corsa, garra e nervi saldi sono garantiti, il punto di domanda sorge quando si parla di creare calcio: mai in un derby è stato schierato un centrocampo basso così tanto fisico e poco tecnico ed il trio nerazzurro Zanetti, Cambiasso, Motta in quanto a corsa non regalerà un centimetro di campo.

-Diego Milito. El Principe vede il Milan come le api il miele. Storicamente (per il bomber della beneamata) il club di via Turati consiste in uno dei bersagli a lui prediletti. Una grande prestazione stasera, condita magari da un goal, potrebbe suggellare il ritrono definitivo allo status di calciatore dell’argentino, dopo un inizio stagione a dir poco fantozziano.

-Il ‘non c’è tre senza quattro’ pare statisticamente improbabile. Basandomi su una questione prettamente numerica, pare difficile che dopo aver superato gli ostacoli Benitez, Leonardo e Gasperini, il Milan di Allegri si lasci alle spalle, sconfitto e fuori dalla bagarre scudetto, anche la Beneamata di Claudio Ranieri. Soprattutto per l’apparire di un icona raffigurante un tredici grande come il Duomo: ammontano a tale cifra gli scontri diretti senza un finale in parità. Potrebbe essere la volta giusta?

venerdì 24 settembre 2010

Tanti Auguri, Fatto Quotidiano!


Esattamente un anno fa, iniziava la (per ora) fiera storia di questo quotidiano così umile e sobrio per dimensione e spessore (formato Compact, lunghezza media pagine sedici) ma d’una quasi sfrontata schiettezza, come non solo gli aficionados impareranno nel corso del tempo, circa i contenuti.
Il debutto, per quanto il direttore Padellaro e le firme di punta formulassero con criterio forme di excusatio non petita per eventuali refusi o leggerezze dovute all’inesperienza, fu sfavillante. Le copie, ancora a tiratura limitata, vennero bruciate nel giro di una mattinata e l’edicole prese d’assalto.
Fuoco di paglia o l’inizio di un simbiotico rapporto tra emissari e recettori?

Nell’Italia malata terminale- dalla condizione ‘grave ma non seria’, più dittatura silente(‘dolce’) che ‘repubblica delle Banane’, impossibilitata ad uscire dalla crisi (economica, morale, sociale)nella quale è da almeno tre lustri invischiata per mancanza di strumenti e volontà - quel puzzo precipuo di quando le libertà e i dettami costituzionali vengono smaccatamente calpestati, è divenuto insostenibile.

Ed è proprio contro l’informazione dominante- preconfezionata e spurgata dagli eccessi oltreché dalle verità impunemente occultate- e la tendenza divenuta tristemente d’uso comune, di far ‘l’orecchie da mercante’, non rendendosi disponibile verso chi è in posizione privilegiata e la verità cerca ostinatamente di far venire a galla, che progetti come quello de Il Fatto Quotidiano divengono imprescindibili.

Ricordo ancora bene, quello storico(almeno per me) 23 settembre (chi non lo intende tale se ne accorgerà presto, col progressivo inabissamento italiano), nel quale i giornalai veneziani, spaesati e in odor di oltraggio, esponevano all’unisono tutto il risentimento formato cartello, attraverso il quale ‘ringraziavano’ Travaglio, ‘per aver fatto arrivare solo un paio di copie del Suo giornale’.
Non mi unii al malcontento generale, ma rimasi comunque a bocca asciutta, sconfitto dopo un lungo tour alla ricerca dell’ambito ‘Quotidiano’e al contempo potei ritenermi soddisfatto nell’aver tastato il polso d’una porzione, seppur ancora marginale, della collettività.
Il sentirsi partecipi, rappresentati a pieno, anche se da un organo informativo invece che da un partito politico, è senza dubbio una sensazione rinvigorente nonché, lo dico senza imbarazzo né piaggeria, emozionante.

Il direttore Padellaro, Travaglio, Barbacetto, Lillo, Gomez, Flores D’Arcais, Telese e più giovani collaboratori- incrociando idee, convinzioni, progetti anche con la redazione di Micromega, blog come quelli presieduti da Beppe Grillo o Piero Ricca, movimenti quali Il Popolo Viola o Le Agende Rosse - hanno creato un fronte comune nel quale anche il più privato dei cittadino potesse sentirsi partecipe di una genuina (e sorprendente nella propria intransigenza) alternativa ma, quel che più conta, informato.

Debitore, per denominazione, emblema (lo ‘strillone’ stilizzato accanto al titolo) e linea editoriale ai prodotti dei maggiori tra i capiscuola della tradizione giornalistica nazionale, si pensi rispettivamente al ‘Fatto’ di Enzo Biagi o a ‘La Voce’ di Indro Montanelli, il ‘Fatto Quotidiano’ ha fatto tesoro degli insegnamenti delle prestigiose penne, condividendo quell’amore per l’informazione nella sua forma più oggettiva, per la Costituzione e il conseguente rispetto dei precetti in essa contenuti, per il rispetto senza condizione dei diritti legati all’individuo inserito nella società, per un’acuta e, solo secondo chi ha qualcosa (o troppo) da nascondere o guadagnare, pedante analisi politica scevra da alcun colore politico. Chi confonde (in malafede o moderatismo di convenienza) l’atteggiamento intransigente e il desiderio di integrità facilmente rintracciabile tra gli articoli con pretese eccessivamente giustizialiste, forcaiole o moralistiche ha certamente a cuore una linea lassista nella valutazione (da parte di organi atti a questioni giudiziarie, ma non solo: anche l’opinione pubblica è in ballo) delle azioni illegali e bieche compiute da coloro i quali ci rappresentano in blasonate sedi e che invece dovrebbero fungere da esempio cristallino.
Grazie al Fatto(con la ‘effe’ maiuscola) abbiamo goduto, si fa per dire, d’ondate chiarificatrici di ‘fatti’ (con la ‘effe’ minuscola, ma che, molti dei quali per rilevanza, meriterebbero la maiuscola), elargiti a noi lettori senza l’oculatezza di chi deve difendere gli interessi di qualcun altro (sia il potente di turno o i lettori-elettori), privi quindi di un ‘taglio’ specifico e parziale.
L’esclusivo interesse è stato, dal primo introvabile (ahia!) numero ad oggi, quello del cittadino-lettore, messo vis-à-vis con quello che la scena politica e non (ma come si è soliti dire: ‘tutto è politica’) ci presenta (il che è molto diverso da come Si vorrebbe presentare), nella sua concretezza, crudezza e prosaicità.
A chi non è d’accordo, con mente all’icona Bogart de l’ultima minaccia, e con il cuore a questo esempio di libertà fatto giornale, basterà un: ‘è la stampa bellezza. E tu non ci puoi fare niente’.
Buon Compleanno.

domenica 27 giugno 2010

Il meglio della Coppa in 5 istantanee

Eto’o e il ruggito solitario.
Un Mondiale fallimentare, il Continente in ginocchio. Per salvare la faccia al ‘Continente Nero’ è occorsa l’insperata qualificazione ghanese- premiata contemporaneamente dall’atteggiamento corsaro dei Socceroos sui serbi e dall’indolore scacco contro la puntuale Germania – nonostante una malcelata insipienza tattica.
A meritare un posto in questa insolita graduatoria, non una gemma tattica, una delizia per esteti, un gesto istintivo ma la veemente reazione dell’umanissimo Eto’o, abile velocista e per l’occasione capitano, simbolo, cuore nevralgico della manovra camerunense. La rete che scatena l’ardente sfogo del Re Leone, 19 giugno in Camerun – Danimarca, scrolla per un momento dal vigoroso dorso del campione la pressione africana. Le aspettative di chi elemosina un risultato positivo da contrapporre all’egoismo quotidiano d’un’esistenza per nulla appagante. L’Eto’o uomo, esempio di sobrietà ed abnegazione, tralascia inopportuni teatrini o smargiassate in sala stampa, ma risponde ai richiami di quelle terre cariche di sogni come meglio (e spontaneamente) gli riesce: dannandosi l’anima sull’habitat che più gli è congeniale e dove più è temuto. L’Eto’o calciatore, raccoglie ottimizzandole le disposizioni della controparte, semplicemente conquistando quasi ogni torneo gli si dia possibilità. In Sud Africa nulla ha potuto contro la sprovvedutezza di molti compagni di team, tornando a casa con tre rovesci su eguali incontri. Un tracollo verticale, che difficilmente riuscirà ad estirpare dai più reconditi angoli della memoria (‘la più grande delusione della mia vità’). Io però, la sentita istantanea di tripudio temporaneo, mi sento di salvarla dall’oblio.

I Tulipani dal gioco totale all’occhiutezza fruttuosa.
Genti d’Olanda, figli di Re Guglielmo e Van Gogh, scordate al più presto l’immacolata grazia del Cigno d’Utrecht, e le opere d’arte scaturite dai piedi del Profeta Crujiff e imparate ad amare la selezione offertavi da Van Marwijk. Capitela. Estrapolatene il nocciolo dall’apparenza. La sfolgorante chimera del ‘Gioco totale’ lasciatela ai romantici d’antan. Nel Campionato del Mondo delle sorprese e delle prime importanti defezioni, la possibilità di un trionfo tinto d’arancio si palesa inequivocabilmente. Concretezza, solidità, cinismo le nuove parole chiave con cui far breccia nelle retroguardie avversarie. Godetevi gli apostoli che sono incaricati, metaforicamente, di cingervi la mano fino alla battuta conclusiva. Van Persie, Kuyt, Snejider e Robben i loro nomi, da non scordare per chi, dopo la fascinazione seventies della giostra oranges, ha ancora voglia di farsi piacevolmente indottrinare dagli epigoni di Rinus Michaels.


Domenech e il deserto.
L’ometto, aggrappato con le unghie e con il poco intento di pugnare rimastogli al proprio micromondo interno, nel tentativo di lasciar trasparire una scorza serafica e indifferente, diciamolo, oltre allo sberleffo facilone si offre anche all’umana compassione. Proviamo ad entrare negli sgualciti panni dell’esecrabile Raymond, immortalato al centro del campo, tra l’inquieto e il sostenuto. Sei la guida tecnica dei più indisponenti omaccioni, partiti già con l’aria di chi la ‘voglia di sbattersi’ l’ha colpevolmente lasciata all’aeroporto De Gaulle. I sopracitati durante la World Cup si distinguono per prestazioni al limite della decenza, inscenano guerriglie interne, corrono poco e mugolano troppo. Nella natìa Francia i quotidiani, commentano la Waterloo pallonara appellandovi come les imposteurs. I dubbi nutriti sulla validità di convocazioni e uomini schierati s’affastellano copiosi e l’infausta sorte che ti punisce da quel triste 9 luglio 2006 pare non volerti abbandonare.

Certo, i motivi per i quali giocatori, stampa e opinione pubblica gli hanno ormai da tempo voltato le spalle s’intuiscono tutti, sintetizzati nello spiacevole siparietto con Parreira.
Pur di non esibirsi in un pacifico quanto ordinario gesto con il quale avrebbe concluso la scaramuccia riguardo alle dichiarazioni del coach carioca - ad interim sulla panchina dei Bafana- l’entraineur si produce in una goffa piroetta, per mezzo della quale svicola e si esime dal confronto diretto.
Grazie anche al risultato tragico del match (si converrà che uscir sconfitti anche da un umilissimo Sud Africa- la squadra- sia una gaffe agonistica imperdonabile) il clima al ritorno in patria sarà ancor più arroventato. Se Domenech se l’aspettasse, non ci è dato saperlo, ma il motivo per cui il suo fare eremitico è da me considerato top, piuttosto che flop five risiede nell’assoluta volontà di rimanere isolato – tralasciando alcuna patetica attenuante.
A differenza di ‘Gastone’ Lippi (non è dopotutto un tiro dagli undici metri in più ad aver decretato l’eterna gloria di uno e l’abisso metaforico dell’altro?) e di altri sconfitti di lusso, ha invece tracciato una linea netta tra coloro i quali stanno ‘con lui’ e chi invece è ‘contro di lui’, evitando di appellarsi ad un ipocrita ‘sconfitta del gruppo’.
Ha affrontato la debacle in primissima persona, scusate se è poco.
Vederlo circondato solo dal muro di suono composto dalle vuvuzelas e dal tramestio del -fino ad allora – sparuto pubblico accorso alla gara, consiste nel momento ‘cinematograficamente’ e simbolicamente più ‘alto’ offertoci finora.

La palombella rossa della Furia Villa.
Il match con i mediocri caraibici mai è stato caratterizzato dall’equilibrio o da una sinistra incertezza. Gli uomini di Del Bosque, assurto il ruolo di grandi favoriti del torneo, conferito loro dai bookies d’Albione- si sono dilettati nello sballottare i malcapitati undici carneadi (nove, se avete l’accortezza garbata di non considerare tali due velocisti prestati al calcio come il ‘barese’ Alvarez e David Suazo) per l’intera superficie adibita al gioco. La sgambata iberica poco ha da offrire sul piano dialettico.
Al contrario la prodezza del Guaje, che ristabilisce una parvenza di giustizia alla graduatoria del Gruppo G, è un gingillo di inestimabile levatura, destinato ad inserirsi tra pasosdobles carioca e roulette à la ‘Zizou’ in quella galleria comprendente indimenticabili affreschi di talento ed emozione che Mondiale dopo Mondiale và arricchendosi.
Quel diavolo d’un Villa aduso alla segnatura lo è fin dagli albori della precoce carriera, tanto da meritare un soprannome d’adolescente che ancora gli rimane appiccicato. C’è invero da azzardare che gol di tal fatta siano anche per lui deroghe estorte alla routine.
La sgusciante serpentina tra i due honduregni è un omaggio al dinamismo, il controllo a rientrare-verso il centro area- con terzo avversario evitato un amalgama di padronanza fisica e arguzia; la conclusione in caduta, carezzando la sfera, assomiglia molto ad un astro morente che, dopo aver sfavillato nell’aere, s’affievolisce dolcemente.
L’estremo difensore, dopo aver tentato senza fortuna un balzo estemporaneo, non può che osservare la rete gonfiarsi , incolpevole e prigioniero della solitudine impostagli dal ruolo.


Diego il trasformista.
Che sia un eletto, elevato a icona pedatoria universale dalla critica all’unisono, lo si estrapola facilmente dai filmati che lo ritraggono in quel di Città del Messico, annus domini 1986. L’esistenza e la carriera di un uomo sintetizzate, avviluppate nell’arco di tre giri d’orologio: dapprima l’istinto peccaminoso, poi la redenzione, tutta in quella epica cavalcata a rete, facendosi doppiamente beffa di una nazione intera. La nazione di Sua Maestà, perseguente il decoro e l’irreprensibilità di maniera, messa in ginocchio – o è il caso di dirlo, dribblata e scherzata- da quel folletto latino sprizzante anticonformismo smargiasso, mancanza di misura e (soprattutto) estremo desiderio d’imporsi. La riconosciuta grandezza di Maradona, in nuce, sta proprio nell’oltrepassare i limiti impostigli dalla natura, aggiungendoci l’aulenza della guasconata. Diego è il politico fanfarone nei confronti del quale censureresti il tuo io giustizialista. L’agitatore di masse un po’ populista ma che alla fine della fiera non puoi astenerti dal dimostrargli spontaneo affetto. Appesi i celestiali calzari al chiodo, ha vestito la tuta da selezionatore nel tentativo di riscrivere la storia, accompagnando l’Argentina all’ hattrick Mondiale. Dal Maradona pibe de oro & Mano de dios all’allenatore linguacciuto e sanguigno il passo non è così lungo come si possa presumere. Il calco è rimasto inequivocabilmente quello.
D’altronde le peculiarità, come i tratti psicologici, mica si smarriscono col fluire del tempo.
Nemmeno se scegli di catalizzare speranze e fantasticherie d’un intero popolo, sulla tua pingue e focosa persona. Men che meno se ti costringono ad uniformarti all’establishment imperante, al ‘calcio dei padroni’; se chi hai sempre combattuto con dichiarazioni al vetriolo e colpi di tacco si prefigge d’usare il tuo nome per tornaconto personale e pensa di farlo addomesticandoti sotto il velluto di una camiciola con giacca e cravatta.
Il fenomeno ammirato (e scimmiottato) sui rettangoli verdi di mezzo mondo è tutto nel coach che prende a male parole la stampa utilizzando registro basso ed espressioni vernacolari.
Diego Armando Maradona, il rivoluzionario,indomabile Diego, china il capo soltanto di fronte ai voleri delle adorate Djalma e Giannina, transitando dalla tuta casual ad una livrea improbabile ad un palpito dall’inizio match.
Che la parte del dandy wildiano non gli sia congeniale, lo suggerisce l’evidenza. Che questo cambio di vesti verrà riproposto in loop assumendo i tratti di un mantra benaugurale, saprà svelarcelo soltanto la storia.
Per ora la liturgia - oltre ai bizzarri metodi d’allenamento, favorevoli nel ‘fare gruppo’ e le spigliate trame offensive albicelestes – pare pagare.