giovedì 21 giugno 2012

Calcio e magie tra gli isolotti




Il Fifa Anthem risuona solenne e il profumo dell’inaspettato solletica le nari australi. E’ l’8 giugno e lo sfondo non è certo il Narodowy di Varsavia, catino che qualche ora dopo ribollirà di aficionados, rutilanti attese e ambizioni da grandeur del pallone.
Trasliamo l’attenzione a circa 15.000 Km, laddove il giorno si fa notte e i nostri simili deambulano capovolti. Laddove i vulcani la fanno da padrone e ridisegnano il territorio a loro piacimento.
Laddove la politica interna riproduce fedelmente le mutazioni morfologiche, a suon di rimpasti governativi e voti di sfiducia.
Laddove, sì, anche il quasi estinto dugongo ha diritto di cittadinanza. Le Isole Salomone.
Ridente coppia di arcipelagi, in cui è il maggiore a portare il nome dello stato, ospitano quest’anno la quadriennale Coppa delle nazioni oceaniche.
E’ uguale in tutto e per tutto ai Campionati Europei, fatta eccezione per le bolse autorità della Fifa presenti sugli spalti, Cristiano Ronaldo e le sue ‘fiamme’ a rotazione settimanale, gli ingaggi plurimilionari, addetti stampa e tv provenienti da ogni parte del globo, i quartier generali delle città assediati da sostenitori ubriachi e molesti, le intere schiere di forze dell’ordine mobilitate per l’occasioni e altre minime differenze che ci si potrebbe stilare un elenco telefonico.

Durante lo svolgimento, si tratta della nona occasione, si sono affrontate otto nazionali, scisse in due gironcini. Poi semifinali, finalina e finale.
Da una parte la nuova Zelanda, superfavorita, fresca di uno storico record: quello dei kiwies sono è l’unico undici ad uscire imbattuto dal Mondiale 2010. Fermare i campioni del Mondo italiani, imbrigliarli grazie ad una sagace ed esasperata tattica difensiva, costringendoli ad uno scialbo 1 ad 1 è un risultato non da poco. Dall’altra, le altre sette, simpatiche compagini di generosi dilettanti, adagiate sul fondo del ranking FIFA.

Ora, tentando d’evitare il più possibile la retorica del calcio ‘puro’- lontano da paillettes e riflettori, estraneo agli scandali e giocato dai bambini privi di scarpe ai piedi ma colmi di sogni nel cassetto – cerco di illustrare ciò che è successo in questo ottogiugnoduemiledodici. Così, tutto d’un fiato lo reciteranno un giorno gli artefici dell’impresa, non dimenticandone mai la data.
Un po’ come noi italiani terremo sempre nel cuore quell’11 luglio dell’82 in cui sopraffammo la Germania. In questi casi, più e ancora degli istanti emotivi e delle immagini, rimane la data.

Ma torniamo a Honiara, dove ha luogo l’intero torneo. Seminfinale.
La Nuova Zelanda vincitrice già di metà delle edizioni precedenti giunge in semifinale a suon di contro-gioco e vittorie striminzite, dando comunque grande impressione di solidità.
La sfidante è la Nuova Caledonia, dipendenza francese dalle vedute paradisiache.
Di tutt’altre fattezze il cammino fino alle semifinali dei ragazzi di coach Alain Moizan, girovago nell’universo del football francaise.
 Dopo una soddisfacente carriera oltralpe da centrocampista, coronata anche da 7 cap in nazionale maggiore, eccolo approdare sulla panchina del Mali, per poi proseguire su quella della Mauritania dal 2008. Da quest’anno offre la sua esperienza ai ragazzi melanesiani. 17 reti totali nei match contro Vanuatu, Tahiti e Samoa sono valse alla Nuova Caledonia il secondo posto nel girone A e lo scontro con i favoritissimi all whites.
 La sfida è l’esempio più limpido di un ‘Davide vs Golia’, ma inscenato tra palmizi, tifosi in bermuda, danze e risate. Gli under dog melanesiani partono subito fortissimi e Gope Fenepej (un nome un programma) fa breccia nella difesa neozelandese e tocca dolcemente per Jacques Haeko, che appena dentro l’area esplode un destro che si infrange sul palo a Gleeson battuto. Potrebbe sembrare il solito fuoco di paglia degno delle cenerentole del pallone, capaci di mettere fuori il naso nei primi minuti per poi arretrare prestando il fianco alle veementi scorribande avversarie. Non sarà così.
Il primo ‘pericolo’ la difesa lo corre al trentaseiesimo della prima frazione, con una velleitaria incornata di Smeltz che termina a un metro dalla porta custodita dall’estremo difensore francofono.
Colui che timbrò il cartellino contro gli azzurri di Lippi e fornì all’Italia sportiva motivo di vergogna mai provato prima, è reso impotente da una decina di isolani naives.
La partita sonnecchia anche ad inizio ripresa e s’appresta ad esser afferrata da un istante all’altro dai neozelandesi, i quali con una rete già se l’assicurerebbero. Invece, il nulla.
Fino a che, dopo circa un’ora di gioco, i kiwies iniziano a percepire nell’aere non la fragranza straniante degli esotici doni della terra ma un aroma che contrae loro la muscolatura e obnubila i sensi. E’ una miscela di sensazioni contrastante; i giganti appaiono bolsi ed appesantiti.
Le gambe si fanno d’argilla e la corsa, asse portante dei risultati del passato, riesce difficoltosa. E’ l’aroma dell’inaspettato, della sorpresa, che da lì a poco non tarderà a palesarsi.
Lancio dalla difesa caledoniana, aggancio appena sfiorato dal solito Haeko e…la retroguardia neozelandese sembra cullata da un’ondata di nostalgia dei tempi andati. Pare d’assistere ad una manche d’un due tre-stella, con i difensori piantati sul terreno ad osservare la sfera capitare sui lesti piedi di Bertrand Kai, funambolico rifinitore avversario. The Great, questo il soprannome coniato per l’occasione dai supporters, sul pallone si avventa invece con astuzia e rapidità e lo carezza da sotto, superando l’incolpevole Gleeson. Esplode il Lawson Tama Stadium che da campetto da oratorio diviene polveriera. Moizan e il suo staff, balza dalla sedia come un tappo di champagne, incredulo ma già parzialmente consapevole dell’ottima prova dei suoi.
I neozelandesi, ancora visibilmente scossi, provano a reagire immediatamente, ma il destino pare aver già deciso a chi sorridere.
Al 66’, in seguito ad una rimessa laterale in zona d’attacco il pallone capita tra i piedi di McGlichey che senza farsi pregare scossa il sinistro a botta sicura. Il tonfo sordo della sfera della traversa è melodia eterea per le orecchie dei caledoniani. Sarà l’ultima vera sortita per i kiwies.
 I ragazzi di Moizan tengono bene il campo e colpiscono fulminei in contropiede a tempo scaduto: Gope Fenej con un pregevole tocco scrive definitivamente la storia.
Le celebrazioni a fine gara si espandono a macchia d’olio assumendo le forme di un balletto liberatorio.
 La gioia è contagiosa, così come l’incredulità.

 I caledoniani piangono e s’abbracciano, ai neozelandesi solo la certezza d’aver recitato, una volta di più, la parte del cattivo.
 Del colòno che s’impadronisce della terra ma ne perde la vera essenza.

Ora, tra palmizi, banane, tramonti spettacolari e sorrisi, a ritmo di danza torniamo nei nostri luoghi natìì, emblemi d’occidente un po’ piatto e pragmatico.
Salutando queste magiche isole, laddove l’importanza del fine (la vittoria) è secondo alla piacevolezza dell’atto (il gioco).
Laddove nessun lucchetto o recinzione preserva lo stadio dagli spettatori abusivi .
Laddove, per qualche strano incantesimo, la vittoria degli invasori dovrà attendere ancora.

*Per la cronaca, la finale, Tahiti-Nuova Caledonia è terminata uno a zero per i tahitiani, regalando loro coppa e l'opportunità di qualificarsi ai Mondiali






mercoledì 6 giugno 2012

Artem Milevskiy, 'Tanto talento per nulla(per ora)'



Se esistesse l’Università del Calcio, Artem Milevskiy ricoprirebbe il ruolo di accademico in ‘Dissipazione di talento e deterioramento del proprio fisico’, agile corso in 10 lezioni frontali.
Più Robin Friday che George Best, più Eduard Streltsov che Andriy Shevchenko.
Avrete ben noti l’Usignolo di Kiev e ‘il quinto Beatles’, ma gli altri due?

Friday, offerto alle masse di feticisti del pallone grazie ad un’encomiabile esegesi da parte del duo McGuigan-Hewitt, fu una punta tecnica e potente, in grado di accorpare in un sol uomo alla potenza dei centravanti ‘ all’inglese’, l’imprevedibilità e una tendenza alla giocata d’effetto proprie di un funambolo.
Un hide Best, con più esattezza, dato che nei soli sei anni di calcio professionistico a ricordare le sue gesta, condite da svariati vizi e rarefatte virtù, rimangono sparuti tifosi di Hayes, Reading e dei gallesi Bluebirds ( Cardiff F.C), club ai quali ha prestato i servigi.
 Tra le tante, l’abbandono del campo a match in corso con conseguente ritorno, appena in tempo per far compilare, sotto la voce ‘Goal’ , il proprio nome. Motivo dell’assenza? Un paio di pinte al pub adiacente il Church Road, casa dell’Hayes. Magico.


L’altro, Eduard Streltsov, fu il ‘Pelè bianco’, il diamante cristallino che Cremlino, Kgb e lo Stato Maggiore-cioè la summa dei reggenti sovietici- nei tardi ’50 cercarono di far assurgere a vessillo dello sport comunista. ‘Donne, vodka e gulag’ è il titolo di un libro recentemente uscito, che bene riassume storia e passioni.
Il talento, nato nelle fila della Torpedo Mosca, ribelle e sbarazzino come il proprio ciuffo, rifiuta caparbiamente le offerte da alcuni dei club più blasonati dell’intera Madre Patria, allora controllati da Politbjuro ed esercito, facendo montare nei suoi confronti fastidio e volontà punitiva. La scure sovietica s’abbatte su Eduard nell’occasione d’una festa di Partito sottoforma di pettegolezzo: secondo le voci Stretsov avrebbe abusato carnalmente di tale Maria Lebedeva. Nemmeno il tempo di proclamare la parola ‘innocenza’, che viene sbattuto a Butirka, terribile luogo adibito ai lavori forzati. Gli danno dodici anni, ne sconterà sette. Lunghissimi.
Dal ’65 torna a vestire la casacca della sua Torpedo, con cui vince il secondo ed ultimo titolo. Non sarà però più lo stesso. Si spegne, malato di cancro e d’ingiustizia, nel luglio del ’90.

Di questi due potenziali campionissimi, vittime di se stessi e d’un destino crudele e beffardo, si ricorda ben poco. Sembra, suo malgrado, parzialmente seguire la scia il pennellone ucraino Artem, figlio di Bielorussia e trapiantato in Ucraina dal 2002.
Il ragazzo, nonostante l’insoddisfacente prestazione dei bielorussi agli Europei di categoria (U-16) viene notato e subito naturalizzato dalla tempestiva federazione ucràina. Ed è proprio ad inizio duemila che la sua carriera incomincia a decollare.
Guadagnatosi un posto in squadra nella gloriosa Dinamo Kiev, prende parte all’Europeo Under 21, dove traghetta la sua nuova nazionale ad una perdente finale. Nella fase a gironi, il Nostro realizza un rigore a cucchiaio. Verrà inserito nella top 11 del torneo.
Oleg Blochkin, lungimirante cittì gialloblu ed ex-bomber, un mese dopo lo porta con sé alla World Cup tedesca, con l’intento di fargli fare qualche sgambata. Fino al supplementare degli ottavi di finale non troverà spazio e la sua sembra una convocazione di circostanza.
Poi, l’epifania.
Colonia, 26 giugno. Calci di rigore. Sbagliano Streller, Barnetta ed il Pallone d’Oro Shevchenko.
Tocca ad Artem. E’ il secondo penalty per i suoi.
 Entrato da pochi minuti in campo, si avvicina al pallone, lo sistema sul dischetto. La prossemica non pare delle migliori: l’occhio è vitreo, la rincorsa ingobbita e goffa, invece…



Ecco, un ventenne che riesce a ripetere un rigore al modo di Panenka, con gli occhi di una nazione e oltre addosso, la stoffa ce l’ha. Inter, Bayern Monaco, Valencia, Lazio e West Bromwich Albion, solo per citarne alcune, negli anni si interessano a lui.
Non se ne fa mai nulla, in buona parte perché per convincere le alte sfere della Dinamo Kiev ci vuole più di qualche rumors.
Gli ucraini si tengono stretto il proprio gioiello, di fatto imprigionandolo tramite contratti d’oro e clausole, con la speranza che li riabituerà a dominare come ai tempi della coppia Sheva-Rebrov il campionato nazionale.
Di risultati individuali ne porterà pure all’ovile, su tutti il titolo di capocannoniere nel campionato 2009-10, ma l’affacciarsi alla ribalta dello Shakthar Donetsk porta via, nell'ultima decade, ben sei titoli alla compagine di Kiev.
Tecnica cristallina, fisicità prorompente e una personalità da top player sono micce in grado di far ardere l’interesse dei vari club europei, i quali fuochi passionali vengono spenti sul nascere dalle discrepanze comportamentali del giocatore, dall’impegno a volte insufficiente, dallo spassionato amore per l’alcool.
La maxi-offerta capace di strappare Artem ai suoi ormai decennali padroni, non è ancora giunta a destinazione. Le notti passate nei night club della capitale assieme al compagno di merende (e bevute) Aliev sono già leggenda.
Gira su internet questo filmato in cui un imitatore ucraino fa il verso al Nostro, dipingendolo come un ‘tuffatore’ dedito ad alcool e fumo.
http://www.youtube.com/watch?v=xcsw84V-6yI&feature=related

In un calcio dove i club europei sembrano, a livello di mercato, sempre più privi di fantasia ed idee, in cui- prendendo ad esempio l’Italia- fino a un paio d’anni fa si sperava a torto in una rinascita sportiva di giocatori ‘bolliti’ come Adriano, Toni o Iaquinta, che non ci sia un posto per Milevskiy pare strano.
L’Ibrahimovic d’Ucraina’ come lo chiamò, in una delle poche intuizioni calibrate Fabio Caressa, merità di più.

Più di alcool, donne e dimenticatoio.

L’Europeo sarà la sua ultima chance.

удачі Чарлі, Artem!